Bussola

Riflessioni sul mio passato e sul “male” esistente che non si risolve non pensandoci 

È vero, scrivere è molto utile perché scrivendo si riflette e si osserva se stessi in modo più obiettivo. Purtroppo, la fretta che ci impone questo sistema di cose ci costringe a fare tutto di corsa e ciò che ne deriva è solo stress ansia e preoccupazione. Ma chi sbaglia non sei tu, è proprio il mondo di oggi, dove non c’è più spazio per la riflessione e l’ascolto. Ma tutto sommato perché affannarsi? Vada pure dove vuole andare questo mondo così frenetico! Io mi sono riservato uno spazio mio dove posso esistere al riparo. Certo, realisticamente, non posso vivere da eremita rifiutando tutto (benché in certi momenti sembri affascinante); è ovvio che qualche compromesso devo pur accettarlo. Però quanto basta. Il tempo, io credo, non ci deve gestire bombardandoci di fatti inquietanti, ma siamo noi a poterlo e doverlo gestire riservandoci per esempio degli spazi gratificanti. Intorno ai 25 anni quando cominciò il lato acuto della mia depressione ero in una città del nord, da solo, reduce da amare esperienze. Però scrivevo molto, avevo una specie di diario. Ascoltavo molta musica, scrivevo io stesso delle piccole canzoni tristi e questo in un certo senso mi “liberava” un poco, pur limitandomi sempre in un ambito di autocommiserazione. Avevo due poli che mi interessavano: il primo era l’amore sentimentale che avevo perso e non sapevo come ritrovare (per cui la mancanza di una donna che mi amasse era come una fissazione); ed il secondo era il mio rapporto con Dio, molto tormentato. Tra questi due poli credo di aver sovraccaricato il lato passionale per la mancanza di una compagna. Forse avevo idealizzato la figura femminile e per questo ero deluso/ferito dalla donna nella realtà; comunque sia era troppo presente questo bisogno. Ma penso che quando si è giovani sia abbastanza normale. Il rapporto con Dio invece, tra alti e bassi, nel corso degli anni è cresciuto (non per mio merito) ed è diventato come una specie di àncora di salvezza stabilizzante. Attraverso Lui ho potuto ricostruire la mia personalità piuttosto devastata e sbilanciata. La conseguenza è stata ridimensionare i fatti.

Parlare del male non è facile, ma non perché non sia giusto parlarne, semplicemente perché il concetto di male viene bandito dalla nostra società consumistica, che accetta, incrementa ed amplifica tutto ciò che mostra come “felice” e “bello”. Ma ovviamente sono degli standard non reali, che tendono a farti essere come dicono loro affinché tu ti conformi ad una certa modalità. Io, per esempio, sono sempre stato abbastanza timido e “musone” per cui nelle feste o negli ambienti in genere non ero una buona compagnia. Quando riuscivo ad instaurare invece una certa amicizia, e potevo essere me stesso, andava un po’ meglio; tuttavia, ero e sono piuttosto selettivo con le amicizie. Oggi le persone sono così vuote e prese dai mass media che spesso è inutile parlare.

Dalle mie parti (centro Italia) nei paesi c’è ancora il timore di parlare di ciò che sia “male”. Persino le malattie gravi spesso non vengono menzionate: “ha avuto un brutto male” per non dire che ha avuto un tumore. La gente vuole ridere, divertirsi, non vuole problemi e se sente qualcosa che la fa riflettere va in crisi, per questo preferisce scappare. Preferisce insomma ignorare che il male e la morte in fondo sono parte della realtà che ci circonda. Il fatto di scacciare l’argomento “male” dai discorsi ed evitare le persone che lo ricordino, non impedisce al male di esistere.

R.R.

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