CONOSCENZA DI DIO E LIMITI UMANI - Di Angelo Galliani - (2005?)

 

 

 

 

 

“Noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo; ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte sarà abolito. Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto”.  (1^ Corinzi 13:9-10,12)

 

Cari amici lettori, desta una certa impressione sentire l’apostolo Paolo parlare in questo modo. Egli aveva ricevuto grandi rivelazioni da parte di Dio; aveva compreso l’opera di Gesù alla luce dell’Antico Testamento, e aveva tracciato le fondamenta della teologia cristiana, elaborando l’esposizione di tutte le grandi “verità di fede”. Paolo aveva addirittura fatto esperienza del Cristo risorto, aveva ricevuto il battesimo nello Spirito, e poi era stato chiamato da Dio ad evangelizzare i popoli… Eppure, in questo brano, Paolo dichiara senza mezzi termini la parzialità della sua opera, come quella di qualsiasi altro essere umano. La nostra conoscenza di Dio, egli scrive ai cristiani di Corinto, è solo “in parte”; di conseguenza anche il servizio della nostra predicazione e la nostra testimonianza di fede sono da intendersi, fatalmente, come parziali, limitati, incompleti…

    

In particolare, fa riflettere un dato, non certo secondario: Paolo afferma queste cose ben sapendo di rischiare di mettersi in cattiva luce, perché si rivolge a una comunità di cultura “ellenistica”, dove certe tendenze filosofiche avevano inquinato sul nascere la genuinità della fede in Cristo. Infatti, nella comunità di Corinto molti confidavano nella “conoscenza”, intesa come una ricchezza donata all’intelletto umano, in grado di far conseguire, a chi la possiede, la comunione col divino, e quindi il distacco da tutto ciò che è male… L’esperienza “mistica”, secondo alcuni, aveva il potere di elevare l’essere umano al di sopra delle sue inevitabili fragilità ed incongruenze. Oltretutto, molti credenti di quella comunità, attribuivano eccessivo valore all’abilità oratoria dei vari predicatori, come se questa fosse, di per sé, la manifestazione concreta di quella “conoscenza” spirituale tanto agognata… Insomma, la chiesa di Corinto, nel suo insieme, bramava i “grandi concetti”, le rivelazioni “eccelse”, le verità “assolute”…

Ebbene, l’apostolo Paolo, rischiando di mettere in cattiva luce il suo stesso apostolato, afferma con estrema chiarezza che la sua “conoscenza” delle cose di Dio, e quindi anche la sua predicazione, è inevitabilmente limitata. Egli infatti non ha di mira la tutela di se stesso, ma la vera crescita spirituale di quella chiesa. Per lo stesso motivo, egli non si presenta a quella comunità con discorsi di alto tenore retorico, infarciti di termini ricercati o di sottigliezze dottrinali; egli, al contrario, predica “solo” Gesù Cristo, e la sua morte in croce.

    

Paolo, infatti, è ben consapevole di un problema che va assolutamente affrontato e superato, nella comunità di Corinto: le disquisizioni filosofiche, le finezze intellettuali, gli assolutismi teorici, generano inevitabilmente contese e divisioni. Oltretutto, una concezione individualistica della vita nuova in Cristo, cioè una salvezza considerata solo a livello personale, produce inevitabilmente una frammentazione comunitaria, una separazione fra chi “sa” (o crede di sapere) e chi “non sa”, fra chi si sente “elevato” e chi invece è ritenuto “inferiore”… Il risultato è una comunità divisa in se stessa, tuttaltro che solidale, turbata dalle sue stesse problematiche, e quindi inadatta ad essere una fonte di vera e concreta testimonianza cristiana. E’ per questo che l’apostolo, pur di fornire alla chiesa di Corinto un insegnamento d’importanza vitale, accetta il rischio di essere “declassato”, di essere considerato, cioè, una persona di “scarso spessore spirituale”…

    

Nel discorso di Paolo affiora, netta, la contrapposizione fra due momenti e due stati diversi: c’è un “adesso” (una “parzialità” presente) e un “allora” (una “perfezione” futura). Se da un lato, con Gesù, l’opera di redenzione da parte di Dio può essere considerata compiuta, dall’altro è anche vero che la “pienezza”, la “completezza”, non è ancora giunta. Il regno di Dio, per dirla con le parole dello stesso Gesù, è già presente, ma i suoi effetti finali non sono ancora visibili agli occhi umani; anzi, sono nascosti, proprio come il lievito nella grande massa di farina, come il piccolo seme che incomincia a germogliare nel cuore della terra…

    

Dunque, l’apostolo Paolo intende far capire chiaramente, ai cristiani di Corinto, che il tempo presente va vissuto con pazienza, guardando alle promesse di Dio, al suo Figlio Gesù Cristo, e all’amore che ha dimostrato per l’umanità. Anzi, proprio questo amore sta a fornire la giusta chiave di lettura degli eventi salvifici! Infatti, chi ci salva è l’amore di Dio rivelatosi in Cristo, e non la nostra capacità di “capire” concettualmente quest’amore, di inquadrarlo entro i termini rigorosi di uno schema teologico. Del resto, l’amore va vissuto, non intellettualizzato; va goduto, e non vivisezionato per sottoporlo a mille analisi; e va scambiato, per non ridurlo ad un bene di possesso esclusivo, ad un “tesoro” tutto nostro…

    

Per evitare possibili fraintendimenti, va detto per inciso che il discorso di Paolo non intende banalizzare la verità, né relativizzare l’opera di Dio. Egli intende solo disilludere gli “intellettuali” di Corinto circa le loro effettive possibilità di “conoscenza”. Essi, nella loro presunzione di “sapere”, cadono in un fatale errore: anziché guardare a Dio come all’unico Assoluto, assolutizzano invece le loro concezioni e le loro pretese esperienze “spirituali”. Questo, purtroppo, è un errore che si ripete anche oggi quando, in nome di un certo dogmatismo, si tenta di “impacchettare” Dio all’interno dei nostri schemi di comprensione. Certo, anche gli schemi possono talora costituire delle utili illustrazioni, delle valide semplificazioni, che hanno magari il pregio di rendere più accessibili alla gente certi contenuti. Però, ciò che è parziale e relativo (in quanto elaborazione umana) deve restare tale, e non deve essere rivestito di valore assoluto. Altrimenti, al posto di Dio, verrebbero a trovarsi i nostri discorsi su Dio, le nostre concezioni, le nostre elaborazioni…

    

E qui, cari amici lettori, permettetemi di aprire una breve parentesi riguardo ai nostri limiti. Quanto il dogmatismo sia assurdo, è fin troppo evidente, se guardato con l’umiltà della fede. Eppure tanti non si rendono conto di quanto limitati siano la nostra mente, il mondo dei nostri pensieri, l’insieme delle parole con cui ci esprimiamo… La stessa realtà fisica, infatti, ci presenta infinite sfumature diverse, e noi invece possediamo solo pochi termini per descriverla. Pensiamo, per esempio, ai colori. Noi diciamo: “Giallo, arancione, rosso”… Ma, per la luce, esistono infinite lunghezze d’onda, che sfumano senza soluzione di continuità da un tono all’altro. Quand’è, dunque, che il giallo diventa arancione, o l’arancione rosso?... Noi diciamo anche: “Bambino, adulto, vecchio”… Ma in realtà non esiste alcun momento preciso in cui un bambino diventa adulto, o un adulto diventa vecchio... La realtà si presenta come un continuo divenire, oppure come un insieme di infiniti particolari, di cui riusciamo a cogliere, e a definire, solo pochissimi aspetti. E gli esempi, com’è facile intuire, potrebbero moltiplicarsi.

    

Dunque, se le nostre difficoltà umane, di fronte alle cose della stessa realtà fisica, sono così evidenti, figuriamoci che cosa accadrebbe se tentassimo di descrivere le realtà spirituali, che non possono neppure essere percepite dai nostri sensi!... Le nostre “verità” si basano su proposizioni, rette da alcune regole logiche e grammaticali, e sono formate da un numero limitato di parole. E’ chiaro, quindi, che non potremo mai essere in grado di descrivere tutto, né tantomeno potremo mai descrivere compiutamente Dio e la sua opera nei nostri confronti. Certo, dire che “Dio si è rivelato in Gesù Cristo”, significa affermare una grandiosa verità; ma Gesù Cristo è una Persona, non un oggetto d’indagine, e nemmeno un concetto! Quindi, il contenuto profondo e completo di tale rivelazione, non potrà che essere sempre ben oltre ogni nostra possibilità di analisi e d’indagine. Tutti i nostri sforzi, per quanto utili e leciti in molti casi, dovranno essere considerati solo come “relativi” e “parziali”.

    

Questo non vuol dire, ovviamente, che il “relativo” e il “parziale” non abbiano alcun valore; perché altrimenti ci vedremmo costretti a buttar via tutta la vita umana, e con essa anche la testimonianza apostolica che fu di Paolo, di Pietro, e di tutti gli altri!... E forse finiremmo per buttar via perfino le parabole di Gesù, che Egli spesso introduceva con la famosa frase: “Il regno dei cieli è simile a…”; infatti, a qualcuno dei più esigenti, questa “somiglianza” potrebbe non bastare… Così, però, andrebbe sprecato l’inestimabile tesoro spirituale delle parabole! In effetti, a ben vedere, la relatività e la parzialità sono caratteristiche generali della nostra stessa esistenza terrena, e anche di tutti gli strumenti che possiamo adoperare per svolgere un qualsiasi tipo di servizio. Però, anche così possiamo giungere a qualcosa di positivo: ne abbiamo avuto validissimi esempi, molti dei quali riportati proprio nella Bibbia. L’importante, dunque, è non assolutizzare ciò che assoluto non è, né lo può mai diventare.

    

D’altra parte, per tornare al brano di Paolo da noi letto, l’apostolo sembra anche contrapporre due tipi diversi di “conoscenza”: quella di tipo “ellenistico” (la conoscenza intellettiva, che passa attraverso un’elaborazione concettuale delle cose), e quella di tipo, per dir così, “ebraico” (che si basa, invece, sull’esperienza diretta). Paolo, infatti, afferma: “Allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto” (sottinteso: “da Dio”). Per l’apostolo, dunque, se c’è una cosa davvero compiuta, cioè giunta alla sua perfezione (ne parla al passato), non è la conoscenza che lo vede come soggetto protagonista, bensì quella che lo vede come “oggetto” nelle mani di Dio!... Evidentemente, qui non si può parlare della conoscenza di tipo intellettivo, come se Dio finalmente avesse “capito” la persona di Paolo; qui si parla di un’esperienza di comunione reale, che Dio ha operato in Paolo tramite lo Spirito Santo.

    

Per Paolo, dunque, è di gran lunga più importante la conoscenza che Dio ha di lui (lo ribadisco: conoscenza intesa come uno stato di profonda ed intima comunione), anziché la conoscenza che egli può in qualche modo avere di Dio, da realizzare con le sue capacità intellettive, e che pure gli serve da strumento nel suo apostolato. In un altro contesto, Paolo esprime questa gloriosa realtà dichiarando: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Galati 2:20). Anche questo è, per Paolo, un modo “forte” per dire la stessa cosa: Non sono io ad essermi “elevato” fino a Dio, ma è Lui che è venuto da me! E non sono io ad impegnarmi, con volontà farisaica, nel mettere in atto minuziosamente la Sua volontà, ma è Lui che mi comunica i suoi pensieri, i suoi desideri, il suo stesso amore!...

    

Non a caso, è proprio sull’amore che Paolo impernia il seguito del suo discorso ai credenti di Corinto, contenuto nel resto di questo meraviglioso capitolo 13, che molti di noi ricordano quasi a memoria. A tal riguardo, il discorso di Paolo trova un’importante conferma in ciò che è riportato in 1^ Giovanni 4:7-8: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”.

    

Per Paolo, dunque, la Chiesa (non solo quella di Corinto, ovviamente) è “oggetto”, e non “soggetto”, della conoscenza di Dio! Essa perciò è chiamata a vivere la sua testimonianza di fede, e il suo servizio verso il mondo, attuando una prassi d’amore incondizionato, senza restrizioni né pregiudizi, senza stilare graduatorie di merito né emettere sentenze. In quest’ottica, ogni credente è chiamato a vincere le proprie voglie individualistiche, a sottomettere i propri desideri di “conoscenza” e di “realizzazione personale”, per offrire se stesso a Dio attraverso un servizio che tenda al bene dell’intera comunità. I fratelli e le sorelle nella fede, in questo modo, cessano di essere considerati “un problema” (come spesso accade), e diventano invece dei preziosi compagni di viaggio nel cammino verso la mèta celeste; compagni che Dio stesso ci pone accanto, e che perciò non è assolutamente possibile, né lecito, “lasciare indietro”.

 

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