O MORTE, dov’è il tuo dardo? - (1Cor 15:55) - di Gabriella Ciampi - 2-8-18

(Fotografia di  Michael Kittell)

 

La morte di una persona che ci era particolarmente cara e vicina (un genitore, un figlio, un fratello, il compagno/a di vita, un amico intimo…) ci mette bruscamente davanti alla materialità umana, ai nostri limiti terreni, anche quando si trattava di una morte annunciata.

Si dice sempre che la fede rende accettabile la morte, da un certo punto di vista è verissimo: la fede dà senso alla vita e alla morte, rende la morte non spaventosa anzi, la rende desiderabile per ciò che promette.

Tuttavia ciò non annulla la dimensione terrena con il suo corredo di emozioni e pensieri. Possiamo considerare due piani diversi, quello terreno/umano e quello divino/religioso, che sussistono interfacciandosi, mantenendo ciascuno le proprie caratteristiche, le proprie dinamiche e leggi di forza.

Sul piano terreno/umano perdere una persona tanto amata genera forte dolore, scatena emozioni tristi, pensieri scuri, senso di abbandono, di solitudine, di impotenza, di rabbia, di frustrazione.

Per molti apre interrogativi sulla vita e sul senso che ha in generale. Non mandiamo via velocemente queste domande!  Esse sono la nostra occasione di crescita, di maturazione, di evoluzione e forse di riscatto.

Qualcuno arriva a farsi grandi domande sulla vita in questo universo,  oltre il nostro pianeta, sulla “vita oltre la morte”, su cosa sia veramente l’esistenza umana (energia? Anima che entra in un corpo?) e in cosa si differenzia rispetto a quella di un cane fedele o un gatto affettuoso (animali che sembrano esprimere sentimenti ed intenzioni).

Il limite umano estremo viene toccato con mano quando si inizia a cercare risposte su dove è andata la persona amata morta. Si è dissolta come nebbia? La sua energia, il suo spirito, si è spostato in qualcun altro? Esiste ancora come anima invisibile? È ancora presente accanto a me anche se non la vedo? E se c’è, perché non si fa sentire da me?

Come se arrivassimo al confine finale del mondo, come se avessimo raggiunto esattamente l’orizzonte, sbattiamo la testa contro questo muro trasparente: sembrava possibile andare oltre e invece no, è una barriera invalicabile che non permette di procedere. È il nostro limite umano, dobbiamo accettarlo.

Che siamo atei o credenti, questo limite è un mistero che va accettato: ad un certo punto, questa vita con questo corpo, si interrompe e non sappiamo cosa accade dopo. Questa esperienza vale per tutti e per tutti vale questo mistero.

Sigmund Freud ha detto che inconsciamente siamo tutti convinti della nostra immortalità (1); sappiamo molto bene di essere mortali ma accettare un destino che non sceglieremmo mai, che ci è completamente oscuro e quindi ci spaventa, innesca difese fortissime e profonde.

Non abbiamo risposte immediate e facili alle tante domande e così l’esperienza della morte (sia la nostra sia quella di un altro) è fuori dal nostro controllo, dalla nostra gestione, dalla nostra comprensione. Se a questo aggiungiamo il caso di un coinvolgimento particolare, un legame forte affettivo verso la persona che se ne è andata, tutto questo fatto appare inaccettabile e destabilizzante. Si genera quel forte malessere che chiamiamo “lutto”.

Da qui si aprono due altri discorsi molto importanti:

1.      Cosa significa “elaborazione di un lutto” e

2.   Quali risposte ci offre la religione,  in particolare la fede cristiana.

Per questi argomenti rimando ed invito all’approfondimento con altri articoli e altri testi facilmente reperibili.

Aggiungo soltanto un versetto che offre a tutti una fessura di luce in questo oscuro mistero:

“E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e la morte non ci sarà più;

 e non vi sarà più cordoglio né grido né fatica perché le cose di prima sono passate”

(Ap 21:4)

 

 

 

 

 

(1)     (1) “In fondo nessuno crede alla propria morte, o – il che è lo stesso- ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità” .  Sigmund Freud

 

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