Bollettino libero cristiano evangelico  della "Piccola Iniziativa Cristiana" a cui tutti possono partecipare utile per la riflessione e lo studio biblico

 

 

TI BASTA LA MIA GRAZIA

di Angelo Galliani (10-11-08) 2-12-14 h.11 - (Livello 5 su 5)

 

 

E perché io non avessi a insuperbire per l'eccellenza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un angelo di Satana, per schiaffeggiarmi affinché io non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore perché l'allontanasse da me; ed egli mi ha detto: «La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me. (2 CORINZI 12 : 7-9)

 

Alcune letture introduttive:

Giovanni 11 : 17, 21, 25 (Gesù e Marta);

Matteo 26 : 36-39, 44 (Gesù nel Getsemani);

Romani 8 : 34-38; (invincibilità dell’amore di Dio).

 

 

Carissimi, l’argomento al centro della riflessione di oggi potrebbe definirsi “spinoso”. Infatti, quel Dio che ci chiama, ci parla, e suscita in noi la fede, è lo stesso Dio che a volte ci lascia scivolare in situazioni in cui non vorremmo proprio trovarci. Sarebbe troppo lungo, e forse anche inutile, elencare tutti gli svariati motivi per cui possiamo andare “in crisi”: malattie, lutti, povertà, solitudine,incomprensioni… Basti dire che, in certi frangenti, ci troviamo alle prese con aspetti della realtà che in qualche modo rendono problematico il nostro rapporto col Signore, e di conseguenza attentano anche alla nostra testimonianza di fede, o al servizio che siamo chiamati a svolgere. Anzi, in certi casi ci troviamo spiazzati proprio in quanto credenti! La nostra fede, infatti, è riposta non in un dio metafisico, lontano, che regna solamente in una dimensione trascendente,bensì è riposta in un Dio vicino, che, come un “buon pastore”, ci accompagna nella vita e risponde alle nostre necessità spirituali. Ebbene, per questo motivo non riusciamo assolutamente ad accettare la penosa sensazione che Egli ci abbia “abbandonati” proprio nei momenti più difficili.

 

Forse, in tali occasioni, la nostra preghiera giunge a trasformarsi in rimprovero. “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”, esclama Marta, disperata, rivolgendosi a Gesù. Certo, questa frase esprime certamente una fede: quella secondo cui Gesù avrebbe voluto e potuto impedire un evento luttuoso. Però, quella di Marta, è una fede limitata, che assegna l’ultima parola agli eventi e non a Dio. Un analogo atteggiamento possiamo riconoscerlo nei discepoli di Gesù quando si trovano drammaticamente di fronte all’arresto e alla morte del loro Maestro. Essi fuggono in preda al panico e allo scandalo, “come pecore senza pastore” dice la Bibbia. La croce è, per tutti loro, un epilogo assurdo e crudele che sembra cancellare per sempre ogni speranza. Emblematico è il ben noto racconto, riportato nel vangelo secondo Luca, di quei discepoli delusi che se ne tornavano mestamente al loro villaggio (Emmaus). La loro frustrazione, come si comprende dal testo, proveniva da una chiave di lettura tutta umana degli eventi della Passione.

 

Del resto, la stessa “crisi” vissuta da Gesù in prima persona nel Getsemani, è lì a testimoniare di qualcosa che tendiamo volentieri a dimenticare: nella via in cui Dio ci chiede di incamminarci, tutta la nostra persona è rimessa in  discussione, come anche la nostra logica, e il nostro punto di vista individuale. Gesù, in quel momento, sente tutto il peso angoscioso di quel che lo attende. Cerca conforto nella preghiera, ma anche nella compagnia di coloro che gli sono stati più vicini. “Padre mio, se è possibile, passi oltre da me questo calice!”, prega ripetutamente… Però la soluzione della sua “crisi” non gli giunge da una risposta affermativa da parte del Padre, né tanto meno dal sostegno morale dei suoi discepoli sonnacchiosi. La risposta gli giunge invece da una profonda consapevolezza: la Croce si trova sulla strada che egli deve percorrere, fino in fondo, per il bene dell’umanità. Gesù, dunque, accetta di farsi veicolo di un Amore Totale, un amore che non si lascia fermare da nulla e da nessuno; nemmeno da un supplizio doloroso, infamante e, per certi versi, addirittura scandaloso, secondo la mentalità dell’epoca.

E’ l’intima conoscenza di quello stesso Amore Totale, inoltre, che sospinge l’apostolo Paolo a scrivere queste meravigliose parole: “Infatti, sono persuaso che né morte, né vita, né angeli,né principati, né cose presenti, né cose future… potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore”.

E in questo elenco, senza paura di sbagliare, potremmo inserire i nostri stessi limiti umani: quegli errori, quei difetti, quelle imbarazzanti incoerenze in cui tanto spesso ci dibattiamo.

Ora, dopo queste considerazioni introduttive, arriviamo finalmente al brano oggetto della nostra riflessione:

 

2^ CORINZI 12:7-9

“E perché io non avessi a insuperbire per l’eccellenza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un angelo di Satana, per schiaffeggiarmi,affinché io non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me, ed Egli mi ha detto: ‘La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza’ Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze,affinché la potenza di Cristo riposi su di me”.

 

Come sappiamo, chi ama deve saper dire di “sì” a chi gli chiede qualcosa. Però, chi ama davvero, e mira al Bene con la “B” maiuscola, deve anche saper dire di “no” tutte le volte in cui l’assecondare una data richiesta possa essere controproducente.

 

Ora, questo è il punto cruciale da comprendere: gli effetti di una richiesta non devono misurarsi solo sul diretto interessato che la formula, ma anche su tutti coloro che, in vari modi,sono in relazione diretta con lui.

Tutto ciò è ben noto a molti genitori che cercano di non viziare i loro figli, ed è noto anche a molti educatori ed insegnanti che hanno in programma di far crescere e maturare nel modo migliore i ragazzi che sono loro stati affidati.

Ebbene, anche Dio sa pronunciare i suoi “no”. Essi sono molto pesanti, a volte, perché lasciano alcuni credenti in condizioni che, umanamente parlando, potremmo definire “inaccettabili”.

Allora deve avvenire un salto di qualità a livello di rapporto spirituale: alla semplice fede in un “Dio che risponde”, deve subentrare una fede più profonda in un “Dio che guida, istruisce e consola”.

 

Molti studiosi del Nuovo Testamento si sono affannati nel capire di che natura fosse la “spina nella carne” di cui parla l’apostolo Paolo. Alcuni pensano trattarsi di un grave problema agli occhi, che non lo rendeva autosufficiente negli spostamenti, e non gli permetteva di scrivere da solo le sue epistole.  In questa ipotesi può esserci del vero, ma vi confesso che non mi persuade del tutto. Paolo, proprio  perché non chiama esplicitamente per nome la sua “spina”, sembra quasi mantenere uno stretto  riserbo su una questione che, per lui, è fonte di grande imbarazzo. Ora, giacché i suoi problemi agli occhi erano presumibilmente ben noti a tutti, e, nonostante quelli, il suo apostolato stava ottenendo ottimi risultati, non si capisce perché qui le parole di Paolo siano tanto evasive. Oltre tutto, Paolo chiama la sua “spina” con un inquietante appellativo che, con efficace sintesi, ne descrive la negatività: “un angelo di Satana”. Con parole più familiari al nostro vocabolario, potremmo dire: “Un messaggero dell’Accusatore”, oppure anche: “Un problema irrisolto che mi fa sentire continuamente in colpa”. Addirittura, Paolo afferma di sentirsi “schiaffeggiato” da quella “spina”, come se da essa provenisse qualcosa di doloroso ed umiliante che feriva la sua dignità di persona, e che forse metteva in dubbio il suo stesso servizio apostolico. Ebbene, mi domando, come potrebbe un semplice problema alla vista produrre tali pesanti ripercussioni nella coscienza dell’apostolo? Dunque, a parer mio, la questione di che cosa fosse in realtà quella “spina” rimane aperta.

Ora, però, qui non si tratta di fare indagini, magari poco rispettose, sulla vita privata di Paolo. Il tema che più ci interessa non è il sapere quale fosse il suo problema, bensì il sapere che Dio lo mantenne saldo nella grazia, e lo confermò nel suo apostolato, nonostante il problema stesso!  “La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza”

Questa risposta di Dio, come si vede facilmente, pone l’enfasi non sulla forza, sulla dignità, sulla coerenza, sul coraggio, o su qualunque altra virtù di Paolo. La risposta di Dio, disarmante e consolante al tempo stesso, pone la sua enfasi sulla relazione fra l’uomo e il suo Dio; fra l’apostolo e chi lo invia in missione; fra chi è chiamato ad annunciare la salvezza e chi, invece, ne è la vera ed unica Fonte…

Forse Paolo deve superare in se stesso il criterio religioso che lo aveva orientato negli anni precedenti la conversione.  Come sappiamo, quelli furono anni in cui si sentiva animato da “sacro zelo”: percorreva per ogni dove la Palestina allo scopo di arrestare ed imprigionare i primi cristiani. Essi, secondo lui, offendevano il Dio d’Israele proclamando delle inaccettabili “eresie”: prima fra tutte, quella di un Messia crocifisso!...  Ma ora, nella coscienza rinnovata dell’apostolo, questo passato di “attivista religioso” dev’essere distrutto completamente. All’efficacia e alla coerenza dell’uomo vanno dunque sostituite quelle di Dio.

Per la causa dell’Evangelo, Dio chiama e si serve di esseri umani che non hanno proprio nulla di nobile o di speciale! Anzi, i loro stessi limiti, a volte anche gravi, possono divenire addirittura elementi specifici che contribuiscono attivamente al loro servizio!..

I segni di questa sconcertante verità, sono diffusi in tutto il Nuovo Testamento, a partire proprio da coloro che furono i primi discepoli di Gesù, coloro che lo accompagnarono in molti suoi spostamenti, e che si trovarono infine di fronte alle tragiche ore della Passione.  Tra essi troviamo gente incolta, persone dal passato oscuro, uomini dubbiosi, ambiziosi, opportunisti, presuntuosi, litigiosi, traditori… E anche alcune donne che non potevano certo dire di avere dei trascorsi irreprensibili…  Eppure, come sappiamo, Gesù non disdegnò la compagnia di tutte queste persone. Anzi, le prendeva ad esempio, nelle sue discussioni con certi benpensanti:  “Gli esattori delle tasse e le prostitute vi precedono nel regno di Dio”,diceva ad alcuni farisei pieni di “fervore religioso”…

Nella nuova economia di questo “strano” Regno, insomma, non contano le “ore di lavoro trascorse nella vigna”, cioè non contano le prestazioni offerte a Dio, ma conta solamente l’accettazione gioiosa della sua grazia, ed il “sì” che pronunciamo di fronte al servizio che Egli ci chiama a svolgere, qualunque esso sia, e nonostante ce ne riconosciamo indegni, dal nostro punto di vista.  Forse, nell’ottica iniziale di Paolo, era rimasto qualche elemento del suo passato religioso, cioè di quando cercava una fedeltà a Dio vissuta attraverso l’iniziativa e la coerenza umane. In genere, non è facile liberarsi dal proprio vissuto, specialmente quando si è stati sospinti per molti anni da forti componenti ideologiche. Ma, sotto la guida di Dio, sono possibili anche i più radicali cambiamenti di prospettiva. Dunque, Paolo giunge a comprendere ed a vivere un nuovo tipo di fedeltà a Dio: quella vissuta nell’umiltà, nell’abbandono totale alla Sua grazia, nella piena consapevolezza della propria indegnità e dei propri limiti.

 

Questa può essere una lezione dura da imparare anche per noi. Spesso dimentichiamo che  nell’ottica globale di Dio, l’unica capace di abbracciare e considerare tutto, prevale un progetto che va ben oltre la sfera individuale. In base a questo progetto, dunque, persino le situazioni più dolorose dal nostro punto di vista soggettivo possono diventare, grazie a Dio, degli elementi preziosi per l’affermarsi del suo Regno.

Tutto ciò, per noi che crediamo, è reso evidente nella Passione di Gesù, perché essa è divenuta l’evento cruciale intorno a cui Dio ha combattuto e vinto la battaglia per la nostra salvezza. Però, in misura diversa ma non per questo meno vera, ciò si è realizzato nella vita di certi profeti, perseguitati o derisi a causa del loro servizio; e si è realizzato in quei primi cristiani messi a morte per non aver voluto rinnegare la loro fede. E si realizza ancora in altri milioni di occasioni, tutte le volte in cui un credente vive nella pace di Cristo nonostante certe condizioni precarie della sua vita, o nonostante le dure sconfitte che è stato costretto a subire.

 

In  conclusione, carissimi, si potrebbe dire questo: anche se la nostra condizione umana è precaria, esposta ad ogni sorta di problemi, alla malattia e alla morte, il Signore che ci ha chiamati sa utilizzarci, per i suoi scopi, esattamente così come siamo, con tutti i limiti che ci caratterizzano. Anzi,paradossalmente, a volte Egli sa trasformare quegli stessi limiti in altrettanti strumenti di servizio, che si rivelano preziosi e insostituibili nell’economia misteriosa del Suo Regno, e concorrono così al bene di coloro che ci sono accanto, spesso a nostra stessa insaputa.

Una volta, non ricordo dove, lessi una frase che, più o meno, recitava così:

“Dio, per le sue battaglie vittoriose, si serve di soldati laceri e feriti, che combattono a mani nude”. Ebbene, mi sembra che tale metafora esprima efficacemente la realtà descritta da Paolo nel brano che abbiamo preso in esame. Per conseguire le sue vittorie spirituali, Dio fa uso di armi altrettanto spirituali: esse non possono essere maneggiate da persone inorgoglite dai propri successi, soddisfatte di se stesse, o radicate nelle certezze della verità che pensano di avere in tasca, o rassicurate oltre il lecito da un “dio di comodo” che non le mette mai in discussione… I migliori soldati di Dio sono invece coloro che hanno imparato a guardare in faccia la pochezza delle loro risorse, e che proprio per questo hanno deciso di far ricorso a quelle che la grazia di Dio mette a loro disposizione per il bene degli altri.

 

Forse talvolta anche noi, vittime della nostra prospettiva umana, cadiamo in gravi errori d’atteggiamento o di valutazione. Forse, sentendoci chiamati a svolgere un particolare servizio, ci tiriamo indietro pensando di “non esserne all’altezza”, e forse pensiamo che Dio farebbe bene a chiamare quella sorella  quel fratello più “capaci” di noi. Però, così facendo, commettiamo l’errore di non confidare in Dio, di non appoggiarci a Lui. Rischiamo così di condurre una vita cristiana sterile, dove vengono  frettolosamente “seppellite” quelle occasioni di servizio che Egli ci offre. Altre volte, forse turbati e preoccupati dai nostri problemi (di qualunque natura essi siano), pensiamo di non poter essere utili a nessuno, come se il servizio alla causa dell’Evangelo debba passare necessariamente da un’esistenza appagata o da una condotta personale assolutamente irreprensibile. Così, però, rischiamo di dimenticarci della solidarietà coi sofferenti che Gesù sperimentò nella sua vita, sopportando tutte le difficoltà proprie della nostra esistenza umana. Del resto, domandiamoci: non è forse vero che, proprio perché Egli non ci ha parlato dall’alto di una nuvoletta, ma si è trovato dalla nostra stessa parte, noi lo abbiamo riconosciuto come il “Dio con noi” di cui parla la Bibbia?... Dunque, se i nostri problemi non ci separeranno più da quelli degli altri, ma anzi ci aiuteranno a comprenderli meglio, allora potremo divenire strumenti di un amore solidale nelle mani di Dio.

 

 

 

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