Crocifissione

Colpi di martello. Urla strazianti. Sotto lo sguardo indifferente dei carnefici, e quello attonito di pochi curiosi, si consuma il più grave delitto dell’umanità. Su quella brulla collinetta, poco distante da Gerusalemme, la creatura umana disprezza integralmente il suo Creatore e uccide Colui che ne porta il sigillo.

Ma le lacrime di Gesù non sgorgano per il dolore dei chiodi, né per l’umiliazione di questa condanna ingiusta: Gesù piange per il suo amore respinto. Piange perché il cuore degli uomini è rimasto di ghiaccio, chiuso in sé stesso, sordo all’accorato appello che gli giunge dall’alto.

Questo Dio che si fa servo non piace agli uomini: non è interessante; non è vincente; non offre garanzie allettanti; non caccia via gli invasori… È un Dio di cui crediamo di poter fare a meno anche quando ne abbiamo disperatamente bisogno. È un Dio dal volto umano che, proprio per questo, evidenzia la brutale disumanità in cui siamo caduti. È un Dio dalla parola dolce e comprensibile che, proprio per questo, mette in evidenza la contorta logica delle nostre autogiustificazioni. In definitiva, è un Dio che rinuncia a sé stesso, si abbassa fino all’umiliazione e si lascia respingere. Egli ci ama, e come ogni vero amante non desidera altro che il nostro libero amore. Per non imporsi, Egli rinuncia a tutta la sua forza.

I condannati ora pendono dalle croci, e si contorcono penosamente per il dolore. Le loro grida si sentono da lontano, ben distinte, e giungono alle orecchie angosciate di alcune donne che, impotenti, stanno assistendo alla scena. Cuori straziati. Occhi gonfi di lacrime. In un mondo cinico e indifferente, c’è qualcuno che condivide la pena e l’ingiustizia di questo momento. La madre di Gesù conosce l’innocenza di suo figlio e sperimenta amaramente quel che le era stato preannunciato (1).

I carnefici, terminato il loro crudele lavoro, si soffermano un attimo a controllare che tutto sia a posto. Verificata la stabilità delle croci e la robustezza delle legature, raccolgono le loro cose e se ne vanno. I soldati romani, invece, dovendo sorvegliare il luogo dell’esecuzione per impedire l’avvicinarsi di estranei, si siedono tranquillamente a giocare a dadi. Si contendono (ben misera posta!) i vestiti dei condannati. Ad ogni lancio di dadi schiamazzano, ridono, urlano parolacce offendendosi fra loro e insultando anche quei poveretti che pendono dalle croci.

Nessuno di questi soldati è stato presente sulle rive del Mar di Galilea, dove Gesù aveva pronunciato discorsi meravigliosi. Nessuno di essi ha ascoltato le sue parabole, né i suoi messaggi di perdono e di speranza. Questi soldati non si sono trovati neanche alla tomba di Lazzaro, dove Gesù, piangendo, aveva fatto risorgere l’amico davanti agli occhi increduli della folla. Essi non lo hanno mai visto abbracciare i fanciulli, sanare i lebbrosi, rialzare gli infermi, dare nuova luce ai ciechi, accogliere sorridente gli emarginati… Essi non conoscono il suo amore per la gente: non si rendono conto di quel Dio che l’ha mandato e che attende trepidante il loro “ritorno a casa” (2). Effettivamente, essi sono ciechi: “non sanno quello che fanno” (3).

Intanto, poco lontano, Gerusalemme continua a vivere come niente fosse. Folle di pellegrini attraversano le sue porte e si dirigono al tempio per offrire sacrifici al Dio dei loro antichi padri: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Uno stuolo di commercianti ed artigiani pregusta allegramente gli affari di questo periodo di festa. I contadini continuano a sudare sulle loro zolle, mentre i capi religiosi continuano ad ammirare soddisfatti la prosperità del loro regno ideologico.

Di fronte a tutto ciò, Gesù in croce è l’immagine dell’Amore respinto. L’amore di Dio ha portato a termine i suoi tentativi, ha esaurito le sue risorse, ed ora pende inerme, vittima più di sé stesso che degli uomini. Non sono bastate le parole. Non sono bastati neanche i fatti. Non è bastata una vita dedicata agli altri, ma è giunto il momento di perdere la vita per gli altri. Gesù accetta di bere fino all’ultima goccia l’amaro calice offertogli dalle mani del Padre. L’abbassamento deve essere totale, il servizio estremo. I carnefici stessi sono perciò accolti da questo paradossale abbraccio d’amore, un Amore che varca vittorioso ogni confine.

Si avvicina l’ora tetra della morte. Di fronte ad essa non si può fingere. Se in vita possono esserci mille motivi per mentire e per dare una falsa immagine di sé stessi, di fronte alla morte cade ogni recitazione, ogni cosa che non sia radicalmente fondata. Ogni aspetto secondario viene soverchiato dall’essenziale, e la vera natura di un uomo può manifestarsi forse come in nessun’altra circostanza della vita.

Ebbene, Gesù non rifiuta la croce, ma la usa quale estrema dimostrazione d’amore. Non si mette, come gli altri condannati, ad inveire ferocemente contro i suoi persecutori, non fa spazio a sentimenti di odio o di rabbia, non cede di schianto alla disperazione. Le insopportabili sofferenze del corpo e dell’anima non riescono ad offuscare lo Spirito che è in lui. Gesù muore, sì, ma con una struggente e ineguagliabile dignità. Tanto che, alla fine, l’ufficiale romano responsabile dell’esecuzione, volgendo lo sguardo a Gesù appena spirato, pronuncia convinto delle parole sorprendenti, che poco sembrano adattarsi alla sua durezza di uomo d’armi: “Quest’uomo era veramente Figlio di Dio!” (4). Fra i tanti condannati a morte che aveva avuto occasione di piantonare, in Gesù il centurione ha visto la differenza!...

Il sole, amareggiato, si avvicina lentamente all’orizzonte. Una sera di profondo lutto si avvicina. Tutti i condannati sono morti e gli addetti provvedono a togliere i loro corpi dalle croci (è vicina la Pasqua ebraica: non è bene turbare il clima di festa lasciando esposti dei cadaveri!). Gesù giace in terra. Le sue membra sono tutte sporche di sangue ed offrono uno spettacolo raccapricciante. Le piaghe della flagellazione, i fori dei chiodi, la corona di spine, il colpo di lancia hanno reso irriconoscibile l’Uomo di Nazareth. Ma in questa immagine, apparente trionfo della crudeltà umana, si cela l’inno glorioso dell’amore di Dio. Dio stesso si è donato in quel sangue. La sua opera si compie in quell’Amore respinto.

A.G. (Settembre 1996) 


(1) Luca 2:34-35.

(2) Luca 15:20.

(3) Luca 23:34.

(4) Matteo 27:54. 

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