Bollettino libero cristiano evangelico  della "Piccola Iniziativa Cristiana" a cui tutti possono partecipare utile per la riflessione e lo studio biblico

 

La parabola del fariseo e del pubblicano - (Luca 18:9-14) - di Filippo - 20-11-17



9 Disse ancora questa parabola per certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10 «Due uomini salirono al tempio per pregare; uno era fariseo, e l'altro pubblicano. 11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé: "O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri; neppure come questo pubblicano. 12 Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo". 13 Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: "O Dio, abbi pietà di me, peccatore!" 14 Io vi dico che questo tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quello; perché chiunque s'innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato».


Per comprendere meglio la parabola di oggi, cerchiamo di inquadrare subito i due personaggi principali: uno è un fariseo, l’altro un pubblicano.

Al tempo di Gesù, i farisei erano una setta religiosa ben conosciuta del mondo giudaico antico e si distinguevano per osservare, in modo rigido e formalmente esasperato, la legge mosaica. A grandi linee, i farisei, rappresentavano il gruppo politico-religioso più significativo della Giudea. Mentre i pubblicani erano gli appaltatori delle imposte del governo di occupazione romano; in pratica erano dei funzionari che pagavano allo Stato di Roma una certa somma come incasso di una tassa, che poi esigevano per proprio conto dalla popolazione, rientrando così dalle spese. Spesso, questa loro funzione esattoriale era viziata da abusi e disonestà: infatti, non era difficile che raccogliessero, per loro stessi, più ricchezze di quanto effettivamente il governo romano avesse imposto. Ecco la ragione di tanto disprezzo e l’accusa di essere, a tutti gli effetti, peccatori pubblici.

Adesso che ne sappiamo di più sul loro conto, forse, ci siamo già fatti una nostra opinione. Senza scendere nei particolari e senza ancora avere letto tutto il racconto, se qualcuno, in questo preciso momento, ci ponesse la domanda: secondo voi, chi potrebbe essere l’uomo giusto, tra il fariseo ed il pubblicano? Quanti di noi orienterebbero le proprie risposte a favore del pubblicano? Gesù, però, spiega il motivo per cui racconta questa parabola: “…per certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri…” (v.9)

I due uomini salirono al tempio, per pregare. Quindi tutti e due ci andarono per lo stesso motivo. Il fariseo, se ne stava in piedi, pregando dentro di se: “Grazie Dio, perché IO non sono un peccatore come gli altri uomini, specialmente come questo pubblicano. Perché IO non imbroglio la gente, IO non commetto adulterio, IO digiuno due volte la settimana ed IO offro al tempio la decima parte di tutto ciò che guadagno”.   Ma il pubblicano, intanto, se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo, mentre pregava, ma, battendosi il petto, diceva: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore!”.

Siamo sicuri che il fariseo stesse veramente pregando Dio? O stava, invece, facendo sfoggio della sua statura morale e religiosa per tentare di estorcere al Signore una giustificazione che non avrebbe mai potuto meritare? A differenza del pubblicano, il fariseo non si sente in errore: il suo sguardo ed i suoi occhi sfidano il cielo, il suo atteggiamento è fiero: egli confida in se stesso, la sua sicurezza è posta nelle sue opere. Si considera un uomo “giusto”, cioè una persona che serve da esempio, per questo si permette di stare in piedi di fronte a Dio. In lui c’è un ego talmente smisurato che gli impedisce di riconoscersi un peccatore come gli atri uomini ed è per questo che disprezza tutti gli altri che non sono come lui.

Egli è convinto di ringraziare Dio, ma essendo il suo cuore distante da Lui anni luce, la sua preghiera diventa soltanto un monologo di autocompiacimento alla sua presunta santità. Infatti, non sta rivolgendosi a Dio, ma a se stesso.

Il suo IO è così forte e sicuro di meritare l’approvazione da parte di Dio, che non si rende conto che il suo orgoglio, la sua presunzione e tutte le sue opere gli sono solo da ostacolo. D’altronde, per i farisei, l’essere giusti significava condurre una vita in conformità alla Legge.

Anziché confrontarsi con la perfezione di Dio e riconoscere la propria condizione di peccatore, egli è come se presentasse a Dio il conto. In altre parole: “siccome IO ho rispettato le regole della Legge ed ho fatto tutto questo per te, tu adesso mi devi ascoltare”. Ma non è così che funziona. Nessuno mette in dubbio che il rispetto di tutte quelle leggi gli erano, sicuramente, costati tante rinunce, tanta fatica e tanto impegno. Il suo cuore, però, era rimasto intrappolato dentro i confini della sua ipocrisia, non si era aperto all’amore di Dio e del prossimo, né l’avrebbe mai potuto sperimentare, con simile disposizione d’animo.

Diversa è la figura del pubblicano, il quale, standosene a distanza, è cosciente di tutta la propria indegnità e si umilia profondamente. Il suo peccato è talmente grande, di fronte a lui, che non osa neppure alzare lo sguardo. Egli si sente indegno di qualsiasi cosa da parte di Dio. Non ha fatto nulla per Lui, non ha rispettato la Legge, le regole; ma il suo spirito è umile e contrito, pronto a lasciarsi trasformare dalla potenza di Dio.

Scavando ancora un po’ tra le parole del testo, senza speculare troppo sulla figura del pubblicano, possiamo dire che la giustificazione che riceve da Dio, non è frutto di un cambiamento della sua professione: quando torna a casa non smette di essere un pubblicano. Egli non viene reso giusto da Dio, perché si pente di essere un esattore delle tasse, ma perché si rende conto di essere bisognoso della misericordia di Dio; perché crede di profanare il tempio con la sua presenza; perché sa che non può promettere di cambiare vita, ma si affida ciecamente al Signore nella fiducia che solo Lui ha l’autorità di poterlo salvare. Pur continuando la sua attività, il pubblicano è chiamato ad una lenta e graduale trasformazione, capace di renderlo sensibile a gesti di perdono e di generosità verso gli altri. Ecco la fede dell’uomo che opera con le “mani” del Signore: “… ogni cosa buona e ogni dono perfetto vengono dall'alto e discendono dal Padre degli astri luminosi presso il quale non c'è variazione né ombra di mutamento.” (Giacomo 1:17) Se ogni cosa buona e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, vuol dire che non provengono da noi e dai nostri sforzi, ma che Dio opera attraverso di noi, secondo la Sua volontà. L’unica richiesta che Dio fa all’uomo e che si lasci guidare, con fede: il resto verrà per la Sua grazia; Dio chiede “amore e non sacrifici, la conoscenza di Dio più degli olocausti”. (Osea: 6:6)

In conclusione, l’insegnamento fondamentale della parabola è che non c’è proprio nessuno di noi che si possa sentire escluso dall’amore di Dio, tranne quando ci persuadiamo di essere giusti e disprezziamo gli altri, “…perché chiunque s'innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato.” (v.14)

 

 

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