Bollettino libero cristiano evangelico  della "Piccola Iniziativa Cristiana" a cui tutti possono partecipare utile per la riflessione e lo studio biblico

 

IL RUOLO DEL PASTORE NELLE CHIESE EVANGELICHE È UGUALE A QUELLO DEL SACERDOTE CATTOLICO? 

di Angelo Galliani - (luglio 2007) 23-3-13 - (Livello 3 su 5)


Introduzione

Questa domanda è molto interessante, specie per quello che riguarda il confronto fra la teoria e la pratica cristiana. Spesso, nel mondo evangelico/protestante, si è operata una critica serrata al cattolicesimo e alle sue varie espressioni, riconoscendone la lontananza da certi insegnamenti scritturali. Tuttavia, se il cattolicesimo si è andato affermando e consolidando nei secoli, significa che ci sono delle precise “componenti umane” che lo hanno reso possibile. Metaforicamente parlando, se constatiamo che una pianta è cresciuta in un certo terreno, vuol dire che lì essa ha trovato le condizioni necessarie e sufficienti per attecchire e svilupparsi. In altri termini, il cattolicesimo non è (solo) frutto delle sue strutture gerarchiche e delle sue impostazioni dottrinali; ma esso è (anche) frutto della mentalità e del comportamento della gente in ambito religioso. Dunque, è possibile ritrovare le suddette “componenti umane” anche in un contesto evangelico/protestante, il che fa funzionare in modo “cattolico” strutture e persone che, teologicamente parlando, dovrebbero invece ricoprire un ruolo diverso da quello che viene loro assegnato. Ciò accade, quindi, con l’aggravante di partire da dottrine che stonano fortemente con la prassi osservata. Se nel cattolicesimo ci sono sacerdoti che presentano sacrifici (la messa) a vantaggio del popolo dei fedeli, ciò è giustificato da un’impostazione teologica coerente. Se invece, in una comunità evangelica/protestante avvenisse una cosa simile, ciò costituirebbe una prassi in aperta contraddizione con la sua confessione di fede. Ma andiamo con ordine.

 

Il bisogno di una guida

Nella Bibbia, i credenti sono spesso paragonati alle pecore: fragili, insicure, facili a smarrirsi ed a finire preda dei lupi famelici… Questa metafora, teologicamente parlando, è corretta perché la lotta fra l’essere umano e il Male è certamente ìmpari: essa vedrebbe soccombere il credente, se questo fosse abbandonato solo a se stesso. Da ciò nasce l’esigenza di una guida spirituale e di un’azione pastorale da parte di qualcuno (Dio, naturalmente, ma anche tutti coloro da Lui mandati a tale scopo). Ebbene, preti e pastori, sotto questo punto di vista, svolgono (o dovrebbero svolgere) il medesimo ruolo: quello di essere vicini a coloro che costituiscono “il gregge”, per insegnare le verità bibliche fondamentali, per essere d’esempio nella loro applicazione pratica, per ascoltare le persone che vivono particolari momenti difficili ed aiutarle a superare le loro difficoltà… Essi (preti e pastori) dovrebbero insomma costituire una guida affidabile, basata su una seria scelta di fede, su una chiamata al servizio da parte di Dio, e anche su una preparazione adeguata.

     Fin qui, le analogie. Esiste però anche una differenza. Mentre nel cattolicesimo il prete è tale per “ordinazione” da parte di un’autorità ecclesiastica superiore, e va a ricoprire un ruolo su preciso incarico di questa (generalmente, a prescindere dalla volontà dei parrocchiani), nel mondo evangelico/protestante c’è un rapporto diretto fra pastore e “gregge”: è la comunità a decidere chi debba ricoprire il ruolo pastorale, scegliendo la persona disponibile fra due o più che le vengono proposte (ma non imposte) da una struttura organizzativa centrale. Su questa base, di solito, nel mondo evangelico/ protestante è la stessa comunità a stabilire la durata del servizio pastorale, confermandola o meno tramite apposite votazioni assembleari.[1]

     Questo quadro, dunque, sembra testimoniare di una diversa realtà operativa e gestionale: mentre nel mondo cattolico esiste un’autorità centrale che si pone al di sopra delle parti, stabilendo chi possa essere prete e chi no, e stabilendo inoltre la sede e la durata del servizio, nel mondo evangelico/protestante le cose avvengono con un metodo democratico, lasciando alla comunità dei credenti il compito di assegnare un mandato e riconoscere un ruolo di tipo pastorale. In questo modo, anziché ad un’istituzione gerarchica, si dà più credito alla conoscenza diretta, al rapporto di reciproca fiducia, al mutuo riconoscimento dei compiti e dei ruoli, con un approccio maggiormente elastico, perché più vicino alle vedute ed alle necessità della realtà ecclesiale.

 

L’assenza di una guida

Nel mondo cattolico non è pensabile una chiesa senza il prete. O meglio: non può esistere la realtà spirituale della chiesa senza la guida apostolica (il vescovo), o senza qualcuno che la rappresenti direttamente (il parroco). Dunque, sempre nel mondo cattolico, i credenti possono considerarsi “nella chiesa” solo se possono beneficiare della presenza e dell’opera della cosiddetta “autorità apostolica”, considerata unita a filo diretto con quella di Pietro e di Gesù Cristo stesso.

     Sotto questo punto di vista, ben diversa appare la situazione nelle chiese di stampo evangelico/protestante. Lì, i vari ministeri (tra cui anche quello di pastore) sono visti semplicemente come i carismi che Dio dona alla chiesa in vista della sua edificazione. Quindi, c’è un “essere chiesa” che precede i carismi, e che anzi li giustifica e li orienta. Una realtà comunitaria evangelica/protestante non perde la sua identità spirituale nel caso (non raro) in cui essa debba temporaneamente rinunciare ad una guida pastorale “ufficiale”, nominata e insediata secondo le regole organizzative previste. Anzi, accade spesso che in tali frangenti le comunità più in sintonia con lo Spirito di Dio possano veder nascere al proprio interno quei “talenti” di servizio di cui hanno bisogno, tramite alcuni credenti che acquistano una nuova consapevolezza delle proprie possibilità e responsabilità.

 

La necessità del ruolo

Nel mondo cattolico il prete, come abbiamo già detto, non è un “optional”. Non si può fare a meno di lui non solo perché egli rappresenta a tutti gli effetti l’autorità apostolica, ma anche perché, attraverso l’amministrazione dei sacramenti, egli rende concreta ed efficace la grazia di Dio a favore di chi crede. Secondo la dottrina cattolica, infatti, il perdono di Dio, la riconciliazione e la santificazione, avvengono primariamente (se non esclusivamente) attraverso la confessione e l’eucaristia. Dunque, la salvezza spirituale dei credenti (bene irrinunciabile, evidentemente) è legata alla presenza di colui che, solo, può amministrare “i canali della grazia” (come vengono spesso definiti i sacramenti); pertanto, anche la presenza del prete è da considerarsi un “bene irrinunciabile”. In questo senso, a tutti gli effetti, il prete svolge un ruolo sacerdotale, poiché viene considerato un intermediario insostituibile fra Dio e gli esseri umani.

     Ben diversa, invece, si presenta la situazione in campo evangelico/protestante. In primo luogo, i sacramenti (con le dovute diversità di vedute fra una denominazione e l’altra) non sono concepiti come “i canali della grazia”, giacché è la fede stessa ad assumere questo ruolo salvifico. Di conseguenza, il compito di chi li amministra diventa automaticamente meno importante, anche se non marginale. Il battesimo e la cena del Signore, pur costituendo indubbiamente dei momenti “forti” nel cammino di fede individuale e comunitario, in genere però non arrivano ad essere considerati come essenziali, e quindi non si sente la necessità di una specifica categoria di persone che sia chiamata a svolgere un ruolo di intermediazione fra i credenti “normali” e Dio. In tale prospettiva teologica, dunque, anche se di solito è il pastore a battezzare i neoconvertiti o a presiedere la cena del Signore, nulla toglie che, in sua assenza, altri credenti possano svolgere tali funzioni, dietro espresso mandato comunitario.

 

Autorità del ruolo

Nel mondo cattolico, il prete, in quanto “sacerdote”, è insostituibile. La sua autorità, quindi, si colloca al di sopra di coloro nei confronti dei quali svolge il suo servizio. Le sue decisioni non possono sottostare ad alcun confronto, ad alcun dibattito, ad alcuna obiezione… Il ruolo del prete è assoluto, e dunque non si presta ad essere inquadrato in alcun contesto di “democraticità”. Anche i suoi insegnamenti, che in linea di principio dovrebbero essere strettamente legati alla dottrina ufficiale approvata da coloro che costituiscono il Magistero della chiesa, non possono essere considerati come “relativi”, e quindi suscettibili di essere messi in discussione. Anche se esistono molti preti “illuminati”, che ricoprono il loro ruolo con umiltà, elasticità e con grande rispetto nei confronti di coloro che gli sono affidati, non si può dimenticare che la stessa istituzione del sacramento dell’ordine (tramite cui un seminarista diventa effettivamente prete) ha il sapore dell’ingresso solenne in una classe privilegiata di credenti: quelli che possono a ragione dire che Dio si serve direttamente di

loro. Dunque, il ruolo e l’autorità del prete, secondo la dottrina cattolica, vengono dall’alto (cioè da Dio), e perciò non possono essere messi in discussione da nessuno, neppure dal diretto interessato (il prete stesso).

Diversa, invece, è la prospettiva per quanto riguarda il mandato pastorale in ambito evangelico/protestante. Pur riconoscendo che tale servizio (come tutti gli altri) affonda le sue radici nella chiamata di Dio, e nel carisma specifico che Egli conferisce a tale scopo, non è possibile ricoprire effettivamente un ruolo pastorale senza un riconoscimento del carisma da parte della comunità, ed un conseguente esplicito invito al servizio da parte di quest’ultima. E’ come se ci fosse un triangolo che debba chiudersi: Dio conferisce il dono spirituale, la comunità lo riconosce in un particolare credente, e infine questi accetta l’invito comunitario di svolgere il relativo servizio. Questo “triangolo”, comunque, non è eterno ed immutabile: esso può spezzarsi per vari motivi, quali, ad esempio: il venir meno del dono spirituale (a causa di una eventuale crisi di fede del pastore); l’improvviso mutare di certe situazioni interne alla comunità (che richiedono un diverso tipo di scelte e quindi anche una diversa guida); il deteriorarsi del reciproco rapporto di fiducia fra la comunità e il pastore (in seguito a problematiche non risolte, o ad errori commessi e non sanati); eccetera. In simili frangenti, di solito, le chiese evangeliche/protestanti cercano un nuovo equilibrio attraverso la ricerca e la nomina di un nuovo pastore che sia all’altezza della situazione. Dunque, questa è la prospettiva di un’autorità che, pur ispirata dall’alto (Dio), è però resa possibile ed autorizzata dal basso (la chiesa), nelle forme attuabili della moderna democrazia.

 

L’immaturità spirituale dei credenti

Nell’introduzione, parlavamo di “componenti umane”, non meglio identificate, che hanno reso possibile l’affermarsi del cattolicesimo nei secoli. E’ ora il caso di vedere da vicino di che si tratta.

     Una prima componente risponde al nome di ignoranza biblica. Diversi credenti, infatti, sebbene siano tali da molti anni, ristagnano in un cronico stato di ignoranza in merito alle Scritture e alla dottrina cristiana fondamentale. Hanno idee molto confuse anche su questioni basilari, e perciò, non avendo la buona volontà di documentarsi e di riflettere personalmente, finiscono per affidarsi ad una classe di “professionisti” (preti o pastori, non ha importanza) che forniscano loro, a richiesta, le risposte di cui hanno di volta in volta bisogno. Si crea così, com’è facile intuire, un rapporto di dipendenza (dal prete o dal pastore), che è in grado di alimentare, poi, addirittura atteggiamenti di sudditanza psicologica (per intenderci: quelli che a volte ci fanno pensare: “Non mi sento d’accordo, ma non posso contraddirlo: è certamente  più informato di me!”). Così, senza volerlo, anche nel mondo evangelico/protestante viene a costituirsi una classe di credenti che gode di un certo grado di “infallibilità” di fatto, anche se non dichiarata attraverso dogmi di fede.

     Una seconda componente risponde al nome di insicurezza spirituale. Molti credenti, infatti, oppressi da più o meno motivati sensi di colpa (per la consapevolezza di certe loro incoerenze umane), pensano di non essere degni di avere con Dio un rapporto diretto, e quindi preferiscono appoggiarsi a persone di “provata spiritualità”. Viene così a costituirsi una “classe sacerdotale”, le cui funzioni siano quelle di intermediare il rapporto fra un popolo di “peccatori” e il Dio tre volte Santo. Secondo quest’ottica, che ha ben poco di cristiano, solo le preghiere e le azioni di tale classe “sacerdotale” possono essere ben accolte da Dio, concepito evidentemente come un severo Giudice, anziché come un Padre misericordioso.

     Una terza componente risponde al nome di disimpegno colposo. Molti credenti, infatti, preferiscono occuparsi delle cose della fede solo di tanto in tanto, nelle feste comandate, o la domenica mattina (nel pomeriggio no, perché c’è lo sport…). Pertanto, sentono l’esigenza di attribuire a qualche “professionista” tutti i compiti e le responsabilità che riguardano la vita comunitaria, ed i vari servizi che necessitano per la sua edificazione. Essendoci un “professionista” che si occupa di ogni cosa, molti credenti pensano di poter dormire “sonni tranquilli”, e trastullarsi così nella propria colposa indolenza.

 

Un cattolicesimo strisciante

Le suddette considerazioni sull’immaturità spirituale, sono evidentemente un quadro sintetico della situazione che si presenta ai nostri occhi di credenti italiani. Però, al di là delle semplificazioni espositive, mi sembra di poter dire che certe “componenti umane” influenzino negativamente la vita di non poche chiese evangeliche/protestanti. Infatti, laddove la figura pastorale è accettata come autorità “divina”, e quindi indiscussa e indiscutibile, e se ne fa il metro ufficiale con cui dirigere e misurare le vicende di chiesa, al punto di evitare ogni apertura al dialogo comunitario, allora stiamo ponendo un nostro fratello (o sorella) su un podio cristianamente inammissibile. E quando richiediamo al pastore una preghiera “speciale”, ritenuta migliore e più efficace di quella che potrebbe innalzare a Dio un credente qualunque, allora significa che inconsapevolmente attribuiamo al pastore un ruolo sacerdotale, come se il nostro rapporto con Dio passasse necessariamente attraverso la sua “santità personale” o la sua “professionalità teologica”. E quando non si va al culto, perché una data domenica a predicare non c’è il pastore, bensì il fratello (o la sorella) Tal dei Tali, allora dimostriamo di non credere in quel Dio che guida col suo Spirito tutti coloro che con umiltà si sottopongono a Lui. Anzi, dimostriamo di avere più fiducia nella sapienza umana, anziché in quella che nasce da una reale comunione con Dio.

     In tali casi, dunque, sebbene ci troviamo inseriti in una chiesa di stampo evangelico/protestante, siamo alle prese con un “cattolicesimo strisciante”, diverso da quello ufficiale solo per le impostazioni teologiche e per le definizioni dottrinali, ma praticamente uguale nei contenuti di fondo. A ciò, ovviamente, fa capo la figura pastorale, a cui vengono affidati ruoli e compiti che in certi casi somigliano molto a quelli di un prete, o addirittura vi coincidono.

     Ora, per concludere il discorso, mi sia concesso esprimere una forte perplessità. Se, da un lato, non mi è difficile capire il punto di vista immaturo di certi credenti, a suo modo coerente, dall’altro, invece, non riesco proprio a comprendere quello di certi pastori, perché stride fortemente col mandato evangelico di cui dovrebbero essere consapevoli. Perché, anziché sottrarsi responsabilmente a certe “deviazioni”, alcuni vi si sottomettono volentieri?... E perché altri ancora le assecondano come se niente fosse?... Perché non si rendono conto che il farsi proclamare “re spirituali” significa di fatto asservire le persone, ed allontanarle ancor più dalla vera libertà che si può trovare solo in Dio?


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[1] Tali considerazioni sono del tutto generiche; infatti, in molte chiese del mondo evangelico il pastore è una figura di responsabile che risponde solo (o principalmente) alle direttive di una organizzazione centrale. Il quadro da me descritto, quindi, è limitato, e più che altro corrisponde ad un ideale non sempre perseguito. (A.G.)

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