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IL RUOLO DEL PASTORE NELLE CHIESE EVANGELICHE È UGUALE A QUELLO DEL SACERDOTE CATTOLICO?
di Angelo Galliani Introduzione Questa domanda è molto interessante, specie per quello che riguarda il
confronto fra la teoria e la pratica cristiana. Spesso, nel mondo
evangelico/protestante, si è operata una critica serrata al cattolicesimo e
alle sue varie espressioni, riconoscendone la lontananza da certi insegnamenti
scritturali. Tuttavia, se il cattolicesimo si è andato affermando e
consolidando nei secoli, significa che ci sono delle precise “componenti
umane” che lo hanno reso possibile. Metaforicamente parlando, se constatiamo
che una pianta è cresciuta in un certo terreno, vuol dire che lì essa ha
trovato le condizioni necessarie e sufficienti per attecchire e svilupparsi.
In altri termini, il cattolicesimo non è (solo) frutto delle sue strutture
gerarchiche e delle sue impostazioni dottrinali; ma esso è (anche) frutto
della mentalità e del comportamento della gente in ambito religioso. Dunque,
è possibile ritrovare le suddette “componenti umane” anche in un contesto
evangelico/protestante, il che fa funzionare in modo “cattolico” strutture
e persone che, teologicamente parlando, dovrebbero invece ricoprire un ruolo
diverso da quello che viene loro assegnato. Ciò accade, quindi, con
l’aggravante di partire da dottrine che stonano fortemente con la prassi
osservata. Se nel cattolicesimo ci sono sacerdoti che presentano sacrifici (la
messa) a vantaggio del popolo dei fedeli, ciò è giustificato da
un’impostazione teologica coerente. Se invece, in una comunità
evangelica/protestante avvenisse una cosa simile, ciò costituirebbe una
prassi in aperta contraddizione con la sua confessione di fede. Ma andiamo con
ordine.
Il bisogno di una guida Nella Bibbia, i credenti sono spesso paragonati alle pecore: fragili,
insicure, facili a smarrirsi ed a finire preda dei lupi famelici… Questa
metafora, teologicamente parlando, è corretta perché la lotta fra l’essere
umano e il Male è certamente ìmpari: essa vedrebbe soccombere il credente,
se questo fosse abbandonato solo a se stesso. Da ciò nasce l’esigenza di
una guida spirituale e di un’azione pastorale da parte di qualcuno (Dio,
naturalmente, ma anche tutti coloro da Lui mandati a tale scopo). Ebbene,
preti e pastori, sotto questo punto di vista, svolgono (o dovrebbero svolgere)
il medesimo ruolo: quello di essere vicini a coloro che costituiscono “il
gregge”, per insegnare le verità bibliche fondamentali, per essere
d’esempio nella loro applicazione pratica, per ascoltare le persone che
vivono particolari momenti difficili ed aiutarle a superare le loro difficoltà…
Essi (preti e pastori) dovrebbero insomma costituire una guida affidabile,
basata su una seria scelta di fede, su una chiamata al servizio da parte di
Dio, e anche su una preparazione adeguata.
Fin
qui, le analogie. Esiste però
anche una differenza. Mentre nel cattolicesimo il prete è tale per
“ordinazione” da parte di un’autorità ecclesiastica superiore, e va a
ricoprire un ruolo su preciso incarico di questa (generalmente, a prescindere
dalla volontà dei parrocchiani), nel mondo evangelico/protestante c’è un
rapporto diretto fra pastore e “gregge”: è la comunità a decidere chi
debba ricoprire il ruolo pastorale, scegliendo la persona disponibile fra due
o più che le vengono proposte (ma non imposte) da una struttura organizzativa
centrale. Su questa base, di solito, nel mondo evangelico/ protestante è la
stessa comunità a stabilire la durata del servizio pastorale, confermandola o
meno tramite apposite votazioni assembleari.[1]
Questo
quadro, dunque, sembra testimoniare di una diversa realtà operativa e
gestionale: mentre nel mondo cattolico esiste un’autorità centrale che si
pone al di sopra delle parti, stabilendo chi possa essere prete e chi no, e
stabilendo inoltre la sede e la durata del servizio, nel mondo
evangelico/protestante le cose avvengono con un metodo democratico, lasciando
alla comunità dei credenti il compito di assegnare un mandato e riconoscere
un ruolo di tipo pastorale. In questo modo, anziché ad un’istituzione
gerarchica, si dà più credito alla conoscenza diretta, al rapporto di
reciproca fiducia, al mutuo riconoscimento dei compiti e dei ruoli, con un
approccio maggiormente elastico, perché più vicino alle vedute ed alle
necessità della realtà ecclesiale.
L’assenza di una guida Nel mondo cattolico non è pensabile una chiesa senza il prete. O
meglio: non può esistere la realtà spirituale della chiesa senza la guida
apostolica (il vescovo), o senza qualcuno che la rappresenti direttamente (il
parroco). Dunque, sempre nel mondo cattolico, i credenti possono considerarsi
“nella chiesa” solo se possono beneficiare della presenza e dell’opera
della cosiddetta “autorità apostolica”, considerata unita a filo diretto
con quella di Pietro e di Gesù Cristo stesso. Sotto
questo punto di vista, ben diversa appare la situazione nelle chiese di stampo
evangelico/protestante. Lì, i vari ministeri (tra cui anche quello di
pastore) sono visti semplicemente come i carismi che Dio dona alla chiesa in
vista della sua edificazione. Quindi, c’è un “essere chiesa” che
precede i carismi, e che anzi li giustifica e li orienta. Una realtà
comunitaria evangelica/protestante non perde la sua identità spirituale nel
caso (non raro) in cui essa debba temporaneamente rinunciare ad una guida
pastorale “ufficiale”, nominata e insediata secondo le regole
organizzative previste. Anzi, accade spesso che in tali frangenti le comunità
più in sintonia con lo Spirito di Dio possano veder nascere al proprio
interno quei “talenti” di servizio di cui hanno bisogno, tramite alcuni
credenti che acquistano una nuova consapevolezza delle proprie possibilità e
responsabilità.
La necessità del ruolo Nel mondo cattolico il prete, come abbiamo già detto, non è un
“optional”. Non si può fare a meno di lui non solo perché egli
rappresenta a tutti gli effetti l’autorità apostolica, ma anche perché,
attraverso l’amministrazione dei sacramenti, egli rende concreta ed efficace
la grazia di Dio a favore di chi crede. Secondo la dottrina cattolica,
infatti, il perdono di Dio, la riconciliazione e la santificazione, avvengono
primariamente (se non esclusivamente) attraverso la confessione e
l’eucaristia. Dunque, la salvezza spirituale dei credenti (bene
irrinunciabile, evidentemente) è legata alla presenza di colui che, solo, può
amministrare “i canali della grazia” (come vengono spesso definiti i
sacramenti); pertanto, anche la presenza del prete è da considerarsi un
“bene irrinunciabile”. In questo senso, a tutti gli effetti, il prete
svolge un ruolo sacerdotale, poiché viene considerato un intermediario
insostituibile fra Dio e gli esseri umani. Ben
diversa, invece, si presenta la situazione in campo evangelico/protestante. In
primo luogo, i sacramenti (con le dovute diversità di vedute fra una
denominazione e l’altra) non sono concepiti come “i canali della
grazia”, giacché è la fede stessa ad assumere questo ruolo salvifico. Di
conseguenza, il compito di chi li amministra diventa automaticamente meno
importante, anche se non marginale. Il battesimo e la cena del Signore, pur
costituendo indubbiamente dei momenti “forti” nel cammino di fede
individuale e comunitario, in genere però non arrivano ad essere considerati
come essenziali, e quindi non si sente la necessità di una specifica
categoria di persone che sia chiamata a svolgere un ruolo di intermediazione
fra i credenti “normali” e Dio. In tale prospettiva teologica, dunque,
anche se di solito è il pastore a battezzare i neoconvertiti o a presiedere
la cena del Signore, nulla toglie che, in sua assenza, altri credenti possano
svolgere tali funzioni, dietro espresso mandato comunitario.
Autorità del ruolo Nel mondo cattolico, il prete, in quanto “sacerdote”, è
insostituibile. La sua autorità, quindi, si colloca al di sopra di coloro nei
confronti dei quali svolge il suo servizio. Le sue decisioni non possono
sottostare ad alcun confronto, ad alcun dibattito, ad alcuna obiezione… Il
ruolo del prete è assoluto, e dunque non si presta ad essere inquadrato in
alcun contesto di “democraticità”. Anche i suoi insegnamenti, che in
linea di principio dovrebbero essere strettamente legati alla dottrina
ufficiale approvata da coloro che costituiscono il Magistero della chiesa, non
possono essere considerati come “relativi”, e quindi suscettibili di
essere messi in discussione. Anche se esistono molti preti “illuminati”,
che ricoprono il loro ruolo con umiltà, elasticità e con grande rispetto nei
confronti di coloro che gli sono affidati, non si può dimenticare che la
stessa istituzione del sacramento dell’ordine
(tramite cui un seminarista diventa effettivamente prete) ha il sapore
dell’ingresso solenne in una classe privilegiata di credenti: quelli che
possono a ragione dire che Dio si serve
direttamente di
loro.
Dunque, il ruolo e l’autorità del prete, secondo la dottrina cattolica,
vengono dall’alto (cioè da Dio), e perciò non possono essere messi in
discussione da nessuno, neppure dal diretto interessato (il prete stesso).
Diversa,
invece, è la prospettiva per quanto riguarda il mandato pastorale in ambito
evangelico/protestante. Pur riconoscendo che tale servizio (come tutti gli
altri) affonda le sue radici nella chiamata di Dio, e nel carisma specifico
che Egli conferisce a tale scopo, non è possibile ricoprire effettivamente un
ruolo pastorale senza un riconoscimento del carisma da parte della comunità,
ed un conseguente esplicito invito al servizio da parte di quest’ultima.
E’ come se ci fosse un triangolo che debba chiudersi: Dio conferisce il dono
spirituale, la comunità lo riconosce in un particolare credente, e infine
questi accetta l’invito comunitario di svolgere il relativo servizio. Questo
“triangolo”, comunque, non è eterno ed immutabile: esso può spezzarsi
per vari motivi, quali, ad esempio: il venir meno del dono spirituale (a causa
di una eventuale crisi di fede del pastore); l’improvviso mutare di certe
situazioni interne alla comunità (che richiedono un diverso tipo di scelte e
quindi anche una diversa guida); il deteriorarsi del reciproco rapporto di
fiducia fra la comunità e il pastore (in seguito a problematiche non risolte,
o ad errori commessi e non sanati); eccetera. In simili frangenti, di solito,
le chiese evangeliche/protestanti cercano un nuovo equilibrio attraverso la
ricerca e la nomina di un nuovo pastore che sia all’altezza della
situazione. Dunque, questa è la prospettiva di un’autorità che, pur
ispirata dall’alto (Dio), è però resa possibile ed autorizzata dal basso
(la chiesa), nelle forme attuabili della moderna democrazia. L’immaturità spirituale dei credenti Nell’introduzione, parlavamo di “componenti umane”, non meglio
identificate, che hanno reso possibile l’affermarsi del cattolicesimo nei
secoli. E’ ora il caso di vedere da vicino di che si tratta. Una
prima componente risponde al nome di ignoranza
biblica. Diversi credenti, infatti, sebbene siano tali da molti anni,
ristagnano in un cronico stato di ignoranza in merito alle Scritture e alla
dottrina cristiana fondamentale. Hanno idee molto confuse anche su questioni
basilari, e perciò, non avendo la buona volontà di documentarsi e di
riflettere personalmente, finiscono per affidarsi ad una classe di
“professionisti” (preti o pastori, non ha importanza) che forniscano loro,
a richiesta, le risposte di cui hanno di volta in volta bisogno. Si crea così,
com’è facile intuire, un rapporto di dipendenza (dal prete o dal pastore),
che è in grado di alimentare, poi, addirittura atteggiamenti di sudditanza
psicologica (per intenderci: quelli che a volte ci fanno pensare: “Non
mi sento d’accordo, ma non posso contraddirlo: è certamente più informato di me!”). Così, senza volerlo, anche
nel mondo evangelico/protestante viene a costituirsi una classe di credenti
che gode di un certo grado di “infallibilità” di fatto, anche se non
dichiarata attraverso dogmi di fede. Una
seconda componente risponde al nome di insicurezza
spirituale. Molti credenti, infatti, oppressi da più o meno motivati
sensi di colpa (per la consapevolezza di certe loro incoerenze umane), pensano
di non essere degni di avere con Dio un rapporto diretto, e quindi
preferiscono appoggiarsi a persone di “provata spiritualità”. Viene così
a costituirsi una “classe sacerdotale”, le cui funzioni siano quelle di
intermediare il rapporto fra un popolo di “peccatori” e il Dio tre volte
Santo. Secondo quest’ottica, che ha ben poco di cristiano, solo le preghiere
e le azioni di tale classe “sacerdotale” possono essere ben accolte da
Dio, concepito evidentemente come un severo Giudice, anziché come un Padre
misericordioso. Una
terza componente risponde al nome di disimpegno
colposo. Molti credenti, infatti, preferiscono occuparsi delle cose della
fede solo di tanto in tanto, nelle feste comandate, o la domenica mattina (nel
pomeriggio no, perché c’è lo sport…). Pertanto, sentono l’esigenza di
attribuire a qualche “professionista” tutti i compiti e le responsabilità
che riguardano la vita comunitaria, ed i vari servizi che necessitano per la
sua edificazione. Essendoci un “professionista” che si occupa di ogni
cosa, molti credenti pensano di poter dormire “sonni tranquilli”, e
trastullarsi così nella propria colposa indolenza.
Un cattolicesimo strisciante Le suddette considerazioni sull’immaturità spirituale, sono
evidentemente un quadro sintetico della situazione che si presenta ai nostri
occhi di credenti italiani. Però, al di là delle semplificazioni espositive,
mi sembra di poter dire che certe “componenti umane” influenzino
negativamente la vita di non poche chiese evangeliche/protestanti. Infatti,
laddove la figura pastorale è accettata come autorità “divina”, e quindi
indiscussa e indiscutibile, e se ne fa il metro ufficiale con cui dirigere e
misurare le vicende di chiesa, al punto di evitare ogni apertura al dialogo
comunitario, allora stiamo ponendo un nostro fratello (o sorella) su un podio
cristianamente inammissibile. E quando richiediamo al pastore una preghiera
“speciale”, ritenuta migliore e più efficace di quella che potrebbe
innalzare a Dio un credente qualunque, allora significa che inconsapevolmente
attribuiamo al pastore un ruolo sacerdotale, come se il nostro rapporto con
Dio passasse necessariamente attraverso la sua “santità personale” o la
sua “professionalità teologica”. E quando non si va al culto, perché una
data domenica a predicare non c’è il pastore, bensì il fratello (o la
sorella) Tal dei Tali, allora dimostriamo di non credere in quel Dio che guida
col suo Spirito tutti coloro che con umiltà si sottopongono a Lui. Anzi,
dimostriamo di avere più fiducia nella sapienza umana, anziché in quella che
nasce da una reale comunione con Dio. In tali
casi, dunque, sebbene ci troviamo inseriti in una chiesa di stampo
evangelico/protestante, siamo alle prese con un “cattolicesimo
strisciante”, diverso da quello ufficiale solo per le impostazioni
teologiche e per le definizioni dottrinali, ma praticamente uguale nei
contenuti di fondo. A ciò, ovviamente, fa capo la figura pastorale, a cui
vengono affidati ruoli e compiti che in certi casi somigliano molto a quelli
di un prete, o addirittura vi coincidono. Ora, per
concludere il discorso, mi sia concesso esprimere una forte perplessità. Se,
da un lato, non mi è difficile capire il punto di vista immaturo di certi
credenti, a suo modo coerente, dall’altro, invece, non riesco proprio a
comprendere quello di certi pastori, perché stride fortemente col mandato
evangelico di cui dovrebbero essere consapevoli. Perché, anziché sottrarsi
responsabilmente a certe “deviazioni”, alcuni vi si sottomettono
volentieri?... E perché altri ancora le assecondano come se niente fosse?...
Perché non si rendono conto che il farsi proclamare “re spirituali”
significa di fatto asservire le persone, ed allontanarle ancor più dalla vera
libertà che si può trovare solo in Dio?
[1] Tali considerazioni sono del tutto generiche; infatti, in molte chiese del mondo evangelico il pastore è una figura di responsabile che risponde solo (o principalmente) alle direttive di una organizzazione centrale. Il quadro da me descritto, quindi, è limitato, e più che altro corrisponde ad un ideale non sempre perseguito. (A.G.)
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