Bollettino libero cristiano evangelico  della "Piccola Iniziativa Cristiana" a cui tutti possono partecipare utile per la riflessione e lo studio biblico

 

  Eccessiva “identificazione” –  ASPETTO PSICOLOGICO

 di Gabriella Ciampi - psicologa psicoterapeuta - 14-2-13- h.10,30 - (Livello 2 su 5)

 

 

 

C’è una importante e rilevante distinzione tra il comprendere, l’empatizzare e l’identificarsi, con il vissuto di una persona.

La comprensione è una capacità fondamentale che bisogna possedere, quando vogliano offrire aiuto a chi è in difficoltà: prima di aiutare devo poter capire bene quale è il bisogno, quale il tipo di difficoltà, che tipo di sofferenza l’altro sta vivendo, altrimenti il rischio è di fornire un supporto inadatto, un sostegno che sarà inefficace e deludente perché non corrispondente alla richiesta di aiuto. Quindi prima della comprensione deve esserci l’ascolto attento dell’altro perché il mio intervento si possa conformare alla domanda, al vissuto dell’altro. Pertanto risulta inutile intervenire in base a ciò che io penso o provo perché la mia risposta deve essere su misura di ciò che prova e pensa l’altro, e questo posso saperlo soltanto se mi concentro sul suo vissuto emotivo.  

L’empatia è un passo in più della comprensione, significa “mettersi nei panni dell’altro”, riuscire cioè a comprendere non solo razionalmente, con la mente, ma anche con il cuore, con la nostra parte emotiva. L’empatia è quella capacità che ci porta a piangere se un’amica piange, a sentire dentro di noi la felicità se un amico è felice; ci fa percepire non solo l’aspetto comprensibile di uno stato d’animo ma ci fa sentire sulla nostra pelle anche l’emozione che c’è sotto. E’ quindi un grandissimo dono che consente la vicinanza vera e sincera al dolore dell’altro e ci può guidare nel trovare le parole e l’atteggiamento giusto per aiutare perché ci “sintonizza” sul modo di sentire le cose dell’altro che sta male o chiede aiuto.

 A volte un’eccessiva empatia ci può ostacolare e addirittura sviarci perché può essere l’effetto di una identificazione. Accade cioè che perdo di vista il confine tra me e l’altro, entro completamente nello stato d’animo di colui che vorrei aiutare e vi rimango invischiato. Questa posizione  cosi tanto ravvicinata al sentire dell’altro, mi fa sentire come lui sente, mi rattrista come rattrista lui, mi mette in crisi come mette in crisi l’altro. Va da sé che da qui non posso fare molto per aiutare perché si sta male entrambi, si ha entrambi la stessa visuale, il problema dell’altro è anche il mio.  L’identificarmi con l’altro mi limita e blocca anche me.

Alla base dell’identificazione c’è un “riconoscimento”: riconosco un problema che ho/ho avuto, riconosco uno stato d’animo, riconosco me stesso. Forse ho vissuto proprio lo stesso problema, forse sto vivendo la stessa crisi, forse è un’esperienza sepolta nella mia memoria, forse c’è qualcosa che si associa dentro la mia mente ad un’esperienza che ho voluto  rimuovere, nascondere.

L’identificarmi allora mi porta altrove, mi porta verso i miei bisogni e non verso il bisogno della persona che volevo aiutare, mi porta a ragionare in base alla mia utilità, alle mie richieste, al mio sentire. Ciò che posso dire e fare è orientato secondo quello che io sento e provo, l’altro non viene più ascoltato da me, non penso più al suo bene.

Come si può vedere non è utile perché manca “la giusta distanza”, quella distanza ottimale, né lontano né troppo vicino, che mi permette sia di “sentire a pelle” lo stato dell’altro, sia di osservare il problema in modo da vederne le possibili soluzioni.

 

 

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