DECIMO COMANDAMENTO BIBLICO «Non concupire la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo». (Esodo 20:17) - da "AVVICINIAMOCI AI COMANDAMENTI BIBLICI IN MODO RAGIONATO" parte 36 - di Renzo Ronca – 8-4-19

(segue)

Anche stavolta vi riporterò i contenuti di studi scelti tratti dai siti seri che ne permettono la diffusione per l’edificazione a lode e gloria di Dio. Colgo l’occasione per ringraziare questi studiosi e questi operatori del web che danno a tutti noi la possibilità di edificarci, il Signore ve ne renda merito. Il loro link come sempre è nelle note in basso.

«Il decimo Comandamento suona così nel testo originale biblico: לֹא תַחְמֹד בֵּית רֵעֶךָ לֹא־תַחְמֹד אֵשֶׁת רֵעֶךָ וְעַבְדֹּו וַאֲמָתֹו וְשֹׁורֹו וַחֲמֹרֹו וְכֹל אֲשֶׁר לְרֵעֶךָ lo takhmòd bet reècha lo-takhmòd èshet reècha veavdò vaamatò  veshorò vakhamodò vechòl ashèr lereècha non desidererai casa di prossimo tuo non desidererai donna di prossimo tuo e suo servo e sua serva e suo bue e suo asino e tutto ciò che [è] di prossimo tuo.

   La gente comune, soprattutto i cattolici, sono abituati a vedere qui due comandamenti distinti che il catechismo della Chiesa Cattolica elenca come nono e decimo. È doveroso accennare qui, per precisione, che questa numerazione potrebbe ottenersi considerando il primo e il secondo Comandamento come un tutt’uno, tuttavia il fatto che nel catechismo il secondo (che vieta le immagini nel culto) sia sostanzialmente sparito, fa sospettare che la manovra sia solo quella di far tornate i conti: dividendo il decimo in due e facendo sparire il secondo, il totale dà sempre dieci.

             Che il decimo Comandamento sia un tutt’uno, lo si capisce poi semplicemente leggendolo. Il concetto è sostanzialmente chiaro: Non desiderare niente di ciò che è del tuo prossimo, siano persone o cose. Questo enunciato è chiaro anche nel commento ebraico dello yalqùt shimonì (שמעוני ילקוט) in cui li legge: “Non desiderare la casa del tuo compagno – norma generale -, non desiderare la moglie del tuo compagno né il suo schiavo ecc., norma particolare: generale e particolare: non vi è nella generale se non quello che è indicato nella particolare; quando dice ‘e tutto ciò che appartiene al tuo prossimo’ torna a generalizzare; generale, particolare e generale: non può interpretarsi altro che secondo il particolare”. – Sèder Ithrò, 84-1.

   Per certi versi questo Comandamento sorprende. Gli altri decretano di fare o non fare: Non avere altri dèi (I), non fare sculture e immagini nel culto (II), non pronunciare il Nome su cose vuote (III), ricorda di santificare il sabato (IV), onora i genitori (V), non assassinare (VI), non commettere adulterio (VII), non rubare (VIII), non attestare il falso (IX). Dopo questa sequenza di ‘non fare / fai’, giunge il comando “non desiderare”. Ai più rischia di apparire un precetto di lieve importanza, meno incisivo degli altri, quasi impossibile da osservare. Eppure, è la difficoltà della sua comprensione che alla fine ci offre splendori inattesi di grandiosa bellezza.

   Il decimo Comandamento non proibisce di anelare al miglioramento del nostro stato, di acquisire prosperità e di godere del benessere. Tutto ciò, infatti, è considerato nella Bibbia una benedizione di Dio. In Ger 22:14, chi progetta: “Mi costruirò una casa grande con camere spaziose al piano di sopra”, non è condannato perché costruisce e s’ingrandisce, ma perché lo fa in modo disonesto, perché “fa lavorare il prossimo per nulla, non gli paga il suo salario”: “Guai a colui che costruisce la sua casa senza giustizia” (v. 13). Il fedele Giobbe fu benedetto da Dio e “egli ebbe quattordicimila pecore, seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine” (Gb 42:12). Il decimo Comandamento proibisce di desiderare ciò che è degli altri, toccando così le vette della morale più alta.

   È il caso di analizzare bene il verbo ebraico che è tradotto “non concupire” da NR e Did, “non devi desiderare” da TNM, “non desiderare” da CEI e da PdS. Il testo biblico dice לֹא תַחְמֹד (lo takhmòd). Si tratta del futuro del verbo חָמַד (khamàd) che indica il “desiderare” sia in senso negativo sia in senso positivo. Un senso positivo lo troviamo in Sl 68:16 (v. 17 nel Testo Masoretico): “Perché, o monti dalle molte cime, guardate con invidia al monte che Dio ha scelto [חָמַד (hhamàd), “ha desiderato” (cfr. TNM)] per sua dimora?”. Il senso negativo lo troviamo proprio nel decimo Comandamento: qui il “desiderare” assume il senso di “avere delle mire”. Già da questa diversità di valenza del verbo חָמַד (khamàd) si comprende come ci sia desiderio e desiderio. Nel passo del salmo appena citato, il desiderio di Dio relativo al monte Sion (Sl 132:13) è un desiderio sano e legittimo. Non così per Acan che confessando il suo peccato spiega: “Ho visto fra le spoglie un bel mantello di Scinear, duecento sicli d’argento e una sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli; ho desiderato [אֶחְמְדֵם (ekhmedèm)] quelle cose e le ho prese”. – Gs 7:21.

   Nella versione deuteronomica del decimo Comandamento si legge: “Non concupire [תַחְמֹד (takhmòd), “desidererai”] la moglie del tuo prossimo; non bramare [תִתְאַוֶּה (titavèh), “sarai avido”] la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo” (Dt 5:21). Qui, come si nota, vengono usati due verbi

(tra parentesi, è basandosi su questi verbi che Agostino ne ricavò due Comandamenti, compensando così l’unione dei primi due):

il primo – חָמַד (khamàd), “desiderare” – lo abbiamo già esaminato; il secondo è אָוָה (avàh) che significa “bramare” nel senso di essere avidi di qualcosa. Rispettando il significato peculiare dei due verbi, la versione deuteronomica dice nel nostro linguaggio: Non avere mire sulla moglie del tuo vicino, non essere avido circa le sue proprietà.

   Come detto, c’è desiderio e desiderio. Il comando di non desiderare avidamente la proprietà altrui esclude azioni di forza per entrarne in possesso a tutti i costi, ma consente – ad esempio – di fare proposte d’acquisto, anche se ciò comporta ovviamente il desiderio di avere quelle cose. Fin qui il desiderio è legittimo: ci piacerebbe avere una data cosa e la chiediamo al suo proprietario, offrendoci di acquistarla. Ma se la cosa è rifiutata, occorre rinunciare: qui interviene il Comandamento a dirci di non essere avidi. Quando un desiderio illegittimo ci prende, è in facoltà di ciascuno annientare la passione sul nascere e volgere la mente altrove.

   È meraviglioso questo Comandamento nel guidarci secondo l’insegnamento di Dio. Dopo averci detto di non commettere adulterio e di non rubare, dopo averci proibito tutto ciò che tocca la vita, la famiglia e la proprietà del nostro prossimo, ora Dio ci avverte che neppure il desiderio di ciò che appartiene al prossimo ci deve sfiorare. È stupendo come Dio penetra sottilmente nella nostra psicologia. È, infatti, il desiderio che muove la nostra psiche e ci porta a ritenere piccola cosa aggirare i precetti per soddisfare la nostra voglia. “Ciascuno è provato essendo attirato e adescato dal proprio desiderio. Quindi il desiderio, quando è divenuto fertile, partorisce il peccato”. – Gc 1:14,15 TNM.

   Lo takhmòd (לֹא תַחְמֹד), “non desidererai”, diviene così norma generale che illumina tutto il nostro cammino e dà luce piena al comando di Lv 19:18: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, che a ragione il rabbino del primo secolo Hillel e lo stesso Yeshùa (Mt 22:34-39) consideravano, insieme al comando di Dt 6:5, la sintesi di tutta la Toràh: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti”. – Mt 22:40. [fonti: “Le Dieci Parole – Marc-Alain Ouaknin”, Paoline 2001; “I dieci comandamenti. I doveri dell’uomo nelle tre religioni di Abramo – André Chouraqui”, Mondadori 2001; “E Disse – Erri De Luca“, Feltrinelli 2011]»[1]

 

«Nel testo del decimo comandamento sembrerebbe esserci, a prima vista, uno spreco di parole. Il comandamento inizia con “non desidererai…” menzionando, in primo luogo, la “casa”, poi ripete: “non desidererai la moglie…”, enumera quindi, diverse cose appartenenti al prossimo e finisce col concludere: “…nulla di ciò che appartiene al prossimo”. Ne potremmo dedurre quanto segue: poichè questo “nulla” include la casa, la moglie del prossimo e tutto il resto, apparirebbe superfluo dare tutte quelle precisazioni. Se il decimo comandamento fosse stato cosi formulato: “non desidererai nulla di ciò che appartiene al tuo prossimo” si sarebbe avuto un comandamento altrettanto conciso e netto di “non assassinerai” o “non ruberai”. Inoltre, dal momento che secondo la tradizione ebraica, “casa” significa sempre “moglie”, si poteva quindi fare a meno di includere quest’ultimo termine nell’elenco di ciò che non è da desiderarsi. Ma forse è proprio questa parola: “casa”, nominata per prima, ad aprire la strada verso ulteriori e inaspettati significati.

La vigna di Nabot

Maimonide[2] dichiara: chi vuol capire cosa significa “non desiderare” legga il capitolo 21 del primo Libro dei Re. Se vogliamo seguire il consiglio troveremo che il capitolo in cui si parla della storia della vigna di Nabot. L’episodio si snoda in seguito allo scisma che, dopo il regno di Salomone, ha diviso in due il Regno: il Regno di Giuda al sud e quello di Israele al nord. Tra i vari re, tre sono quelli famosi per empietà: Geroboamo e Acab sul regno di Israele e Menasse sul regno di Giuda.

Nel racconto della vigna di Nabot, concupita da re Acab, è proprio l’ultimo comandamento ad essere trasgredito. La storia è questa:

1 In seguito avvenne il seguente episodio. Nabot di Izreèl possedeva una vigna vicino al palazzo di Acab re di Samaria. 2 Acab disse a Nabot: «Cedimi la tua vigna; siccome è vicina alla mia casa, ne farei un orto. In cambio ti darò una vigna migliore oppure, se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale». 3 Nabot rispose ad Acab: «Mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei padri». 4 Acab se ne andò a casa amareggiato e sdegnato per le parole dettegli da Nabot di Izreèl, che aveva affermato: «Non ti cederò l’eredità dei miei padri». Si coricò sul letto, si girò verso la parete e non volle mangiare. 5 Entrò da lui la moglie Gezabele e gli domandò: «Perché mai il tuo spirito è tanto amareggiato e perché non vuoi mangiare?». 6 Le rispose: «Perché ho detto a Nabot di Izreèl: Cedimi la tua vigna per denaro o, se preferisci, te la cambierò con un’altra vigna ed egli mi ha risposto: Non cederò la mia vigna!». 7 Allora sua moglie Gezabele gli disse: «Tu ora eserciti il regno su Israele? Alzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Te la darò io la vigna di Nabot di Izreèl!».
8 Essa scrisse lettere con il nome di Acab, le sigillò con il suo sigillo, quindi le spedì agli anziani e ai capi, che abitavano nella città di Nabot. 9 Nelle lettere scrisse: «Bandite un digiuno e fate sedere Nabot in prima fila tra il popolo. 10 Di fronte a lui fate sedere due uomini iniqui, i quali l’accusino: Hai maledetto Dio e il re! Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia».

Questa storia finisce male. Nabot viene trascinato in giudizio ed ucciso. Jezabel va da Acab e gli comunica: “Ora hai la tua vigna…”, ma il profeta Elia interviene e gli dice: “hai assassinato, e ora prendi possesso! Così parla l’Eterno: nello stesso posto in cui i cani hanno leccato il sangue di Nabot, leccheranno anche il tuo…” e la profezia si realizza.

Il rapporto tra il decimo comandamento e questa storia sembrerebbe evidente: il desiderio, nella sua forma più negativa e in casi estremi, può portare ad assassinare! La storia sembrerebbe limpida. Ma troppi interrogativi restano sospesi. Vediamoli.

Acab ha già una vigna, ma la vuole scambiare a qualunque prezzo con quella di Nabot. Perché insiste così tanto per fare questo scambio? Perché vorrebbe trasformare la vigna  bramata in un orto? Anche la risposta di Nabot è strana, avrebbe semplicemente dovuto dire: “Non ti posso dare la mia vigna”, ma invece egli dice: “Mi guardi l’Eterno dal cederti l’eredità dei miei padri!”, perché?

L’unica cosa che appare, fin qui, evidente è che il problema non è la vigna.

Ma chi è in realtà questo re Acab? In ebraico questo nome significa letteralmente “padre-fratello”, questo perché secondo la tradizione ebraica il nome di Acab ne rivela il mancato rispetto della legge della genealogia. In altre parole egli è padre e fratello contemporaneamente – stiamo parlando di incesto-. A causa di questo peccato Acab ha pervertito la successione delle generazioni e si è reso incapace di trasmettere la PAROLA da una generazione all’altra. Inoltre leggendo bene il testo ci rendiamo conto che egli non vuole una nuova vigna, infatti egli dice: “cedimi la tua vigna perché io possa farne un orto” in ebraico “orto” non è un espressione qualsiasi ma è un termine che rimanda alle origini dell’uomo fin al giardino dell’Eden. Acab dice ancora: “è vicina alla mia casa”, nella nostra lingua questa informazione sembra irrilevante ma in ebraico suonerebbe così: “si trova vicino alla mia BET”ossia alla mia origine. Ecco il vero oggetto della concupiscenza di Acab! In sostanza è “l’eredità dei suoi padri” che egli brama. La vigna racchiude il legame genealogico che Acab ha sovvertito a causa del suo peccato di incesto. Il desiderio di Acab diventa brama, è un prurito che diventa artiglio e dirige gli eventi guidandoli alla catastrofe. Forse Acab è corroso dall’invidia o forse sente la necessità di sistemare la sua storia per poter andar incontro al suo avvenire.

    In conclusione il comandamento sembrerebbe quindi esprimere la proibizione di bramare non solo la vita del nostro prossimo ma anche la sua origine, la sua storia e la sua eredità. In fondo se ci pensiamo la maggior parte delle persecuzioni contro Ebrei e Cristiani trovano la loro origine proprio nella brama di appropriarsi non solo dei beni materiali ma anche dell’eredità spirituale, basti pensare ad esempio alla follia nazista che da un lato pregava degli ebrei (Gesù, gli Apostoli, Maria…) e dall’altro ne pianificava la distruzione inventando accuse, predicando pregiudizi dai pulpiti e istigando alla violenza; desideravano la nostra Divinità o più probabilmente la nostra eredità spirituale e bruciavano i libri, le scuole e le case di preghiera per possederla. Ma in questo comandamento noi siamo tenuti a tenere a freno il morso del desiderio, a dominarlo. Noi dobbiamo saper ammirare senza voler togliere, dobbiamo saper governare quel sentimento che nasce dalla disparità.

 

UN INTERPRETAZIONE PENULTIMA…

Ovviamente questa, come anche quelle dei precedenti articoli dedicati ai comandamenti, è solo una delle interpretazioni possibili. Una volta un rabbino ha detto: “Non insegno dei pensieri, ma il desiderio di mettersi a pensare”, le nostre interpretazioni e le nostre risposte sono limitate, sono vincolate al tempo che viviamo, sono sempre penultime, mai definitive. Ma occorre continuare ad ascoltare la Parola, dare nuove interpretazioni, significati inediti, suscitare nuove emozioni, nuova meraviglia. Nelle Dieci Parole, nella Parola di Dio c’è la vita. Interpretare dice il nostro incessante stupore di fronte al miracolo della vita. Amare la vita significa porsi all’ascolto Parola di Dio con i suoi mille bagliori di luce, con la sua forza eterna in cui tradizione e rinnovamento aprono alle mille scintille di una lettura che ne mostra l’incessante freschezza.»[3]

 (continua)

 

 

 

[1]

Tratto da http://www.biblistica.it/wordpress/?page_id=739  (le evidenziazioni sono nostre)

 

[2]

Maimonide: Moshe ben Maimon, più noto nell'Europa medievale col nome di Mosè Maimònide (… Cordova, 30 marzo 1135 – Il Cairo, 12 dicembre 1204), è stato un filosofo, rabbino, medico, talmudista, giurista spagnolo, una delle personalità di spicco dell'Andalusia sotto il dominio arabo, tra i più importanti pensatori nella storia dell'ebraismo. (Wikipedia)

 

[3]

Tratto da http://qarev.com/il-decimo-comandamento/  (le evidenziazioni sono nostre)

 

 

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