PAOLO AD ATENE: APPROFONDIMENTO DISCORSO DELL'AREOPAGO - ATTI 17: 22-33 (versione Interconfessionale LDC-ABU) - di T. M. 28-6-18

 

 

22 Paolo allora si alzò in mezzo all’Areopago e disse: «Cittadini ateniesi, io vedo che voi siete gente molto religiosa da tutti i punti di vista»

Paolo riconosce la religiosità degli ateniesi, anche se profondamente diversa della sua. Non si tratta di una semplice captatio benevolentiae. Non solo, almeno. Certo, se Paolo avesse iniziato il suo discorso con una frase del tipo “O voi che adorate molti dei, sappiate che siete in errore”, sarebbe stato molto più diretto, ma il suo discorso sarebbe stato decisamente in salita. Forse neppure lo avrebbero ascoltato. Paolo, quindi, riconosce una qualità indiscussa del popolo ateniese: quella di essere particolarmente devoto. Chi conosce la storia greca sa quanto spartani, ateniesi, tebani e tutti coloro che abitavano il Peloponneso avessero davvero a cuore gli dei dell’Olimpo, divinità che cercavano in ogni modo di ingraziarsi con sacrifici, che consultavano prima delle battaglie o prima di adempiere affari importanti, a cui innalzavano maestosi templi e statue. Parliamo di uno spirito religioso radicalmente diverso dal nostro, ma comunque sentito e reale.

23 Ho percorso la vostra città e ho osservato i vostri monumenti sacri; ho trovato anche un altare con questa dedica: al dio sconosciuto. Ebbene, io vengo ad annunziarvi quel Dio che voi adorate ma non conoscete.

Frase eccezionale per la sua semplicità, profondità, ma anche arguzia. È chiaro che il dio sconosciuto a cui era dedicato l’altare non potesse essere il Dio d’Israele. Quella greca era una religione politeista e in tale quadro va inserita quell’ara e quell’iscrizione. Ma il fatto che vi potesse esistere una divinità ignota, non inclusa nel pantheon ellenico, fornisce a Paolo l’appiglio per sviluppare tutta la spiegazione successiva. Quello che è un limite per il politeismo greco, il fatto di non conoscere tutte le divinità esistenti, diventa il punto di partenza per comunicare l’esistenza di un unico e vero Dio. Quella carenza diventa per Paolo il punto di aggancio per inserire Cristo, per proporre qualche cosa di nuovo, di diverso, in grado di rispondere a quel bisogno religioso che risiede nel cuore dell’uomo e che tutti gli idoli che l’uomo ha costruito non sono stati capaci di soddisfare. Non dobbiamo scordare che Paolo, nell’Areopago, si sta rivolgendo a un pubblico colto, ma con una visione religiosa diversa da quelle cristiana e giudaica. Gente che non conosceva, se non per sentito dire, il Vecchio Testamento, la Legge ebraica, la storia d’Israele. In una sinagoga il discorso di Paolo sarebbe stato diverso. Qui è necessario trovare un punto di contatto con chi non è cristiano, non è ebreo, non è neppure monoteista. Qui si parte da “sotto lo zero”. Ma non sempre, questo, è un deficit.

24 Egli è colui che ha fatto il mondo e tutto quello che esso contiene. Egli è il Signore del cielo e della terra …

Sconosciuto non significa inesistente. Ignoto non equivale a inoperoso. Egli è un Dio che agisce, da cui tutto parte e a cui tutto torna. Paolo riprende quando detto nel libro dell’Esodo e in diverse parti del Vecchio Testamento e lo espone, contestualizzando, a chi è digiuno di tale conoscenza.

… e non abita in templi costruiti dagli uomini.  25 Non si fa servire dagli uomini come se avesse bisogno di qualche cosa: anzi è lui che dà a tutti la vita, il respiro e tutto il resto.

Frase chiarissima, diretta, inequivocabile. Eppure disarmante. Dio non abita in un tempio, perché non ha bisogno di risiedere all’interno di un’opera dell’uomo, dato che l’intero universo gli appartiene. E non ha bisogno di qualcuno che lo serva, perché tutto può. Sono gli uomini, viceversa, che hanno bisogno di Lui. A loro Dio ha dato la vita ma, attenzione, non per farsi servire. Gli uomini, sue creature, sono liberi. Queste poche righe sono, per usare un termine caro alla filosofia platonica, un’ondata. È il motivo per cui i sacerdoti di quel tempo giudicarono Gesù un impostore. Paolo sta dicendo qualcosa di sovversivo per quei tempi (e, in parte, pure per quelli odierni). Le divinità elleniche potevano anche interagire con gli uomini, a volte si univano pure con essi, ma rimanevano sempre distaccate da loro. Scendevano dall’Olimpo vuoi per noia, vuoi perché talora davvero colpiti dalle umane vicende, ma poi se ne tonavano nell’Olimpo. Erano divinità volubili, che volevano essere “servite e riverite”, per usare un detto moderno. Il nuovo volto di Dio, proposto da Gesù e qui riproposto da Paolo, è quello di un Dio che non toglie, ma dona, che non sminuisce l'uomo, ma lo innalza. La condizione dell'uomo nei riguardi di Dio non è più quella di un servo verso il suo padrone, ma quella del figlio nei confronti di un padre. Questa sola frase meriterebbe pagine e pagine di riflessioni.

26 Da un solo uomo Dio ha fatto discendere tutti i popoli, e li ha fatti abitare su tutta la terra. Ha stabilito per loro i periodi delle stagioni e i confini dei territori da loro abitati. 27 Dio ha fatto tutto questo perché gli uomini lo cerchino e si sforzino di trovarlo, anche a tentoni, per poterlo incontrare.

Perché Dio ha fatto tutto quello che ha fatto? Qual è lo scopo della vita umana? Lo scopo principale dell’uomo altro non dev’essere che quello di cercare Dio e di conoscerlo, perché la vita dell’uomo può trovare un senso solo in una relazione con il Dio che lo ha creato. È l’inquietudine che conduce alla beatitudine di cui parlava Agostino di Ippona («Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te»). Siamo fatti da Dio, per Dio. Bellissimo. Paolo, in pochi minuti di discorso, ha racchiuso (per quanto possibile) l’incontenibile. Ogni frase e ogni parola di questo discorso aprono riflessioni nuove, nascondono aspetti nuovi, fanno sorgere questioni nuove. In poco tempo, Paolo ha detto tutto. Ogni cosa ha senso solo se ritorna al suo Creatore. Solo chi ci ha creato può dare un senso alla nostra esistenza. Potremmo anche dominare il mondo, ma rimarremmo infelici. Ci mancherebbe comunque qualcosa. Viceversa, possiamo non possedere nulla di materiale, ma saremo felici se incontreremo Dio.

In realtà, Dio non è lontano da ciascuno di noi. 28 In Lui infatti noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo. Anche alcuni vostri poeti l’hanno detto: «Noi siamo figli di Dio».

Dio è più vicino di quanto crediamo e vuole essere conosciuto. A differenza del paganesimo e di altre religioni, noi Cristiani possiamo partecipare della vita dell’Onnipresente. Non è una differenza da poco. L’uomo non è mai solo. Nella limitatezza del nostro essere umani, nell’incertezza del nostro percorso, persino nella nostra fede vacillante, Dio c’è ed opera. La storia dell’uomo è storia di Dio. Di lui siamo stirpe, discendenza, figli. Dio è padre e noi esistiamo grazie al Suo amore verso di noi. La nostra felicità sarà piena solo quando ci abbandoneremo a Lui, quando le nostre volontà si adegueranno alla volontà di Dio.

29 Se dunque noi veniamo da Dio non possiamo pensare che Dio sia simile a statue d’oro, d’argento o di pietra scolpite dall’arte e create dalla fantasia degli uomini.

Difficile non andare con il pensiero, leggendo questa frase, al tema dell’iconoclastia o, comunque, dell’usanza di adornare le chiese con immagini dell’Altissimo. Senza addentrarmi in tematiche di controversa trattazione, penso che voler raffigurare con sembianze o rappresentazioni umane ciò che trascende e supera l’umano sia, se non peccato, quanto meno sconveniente. Con questo non si vuole negare l’elevato livello artistico di alcuni capolavori come la “Creazione di Adamo” di Michelangelo, né arrivare a dire che essi siano cosa sgradita a Dio, ma la condizione dell’Alleanza di Dio con Israele è piuttosto chiara: «Non avrai altro Dio all’infuori di me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è sotto le acque» (Esodo 20,4). Parliamo niente meno che del secondo dei dieci Comandamenti. Una cosa è certa: non si può riservare a immagini, o a rappresentazioni, ciò che è prerogativa solo e soltanto di Dio, attribuendo alle prime poteri taumaturgici o straordinari che non possono possedere. Idolatria e Fede sono due cose ben distinte, che non vanno mischiate e neppure accostate.

30 Ebbene: Dio, ora, non tiene più conto del tempo passato, quando gli uomini vivevano nell’ignoranza. Ora, Egli rivolge un ordine agli uomini: che tutti dappertutto devono convertirsi. 

Estrapolando un po’ questa frase dal contesto, arriva, presto o tardi, il momento in cui non possiamo più ignorare Dio. Dobbiamo scegliere se convertirci, farLo entrare nella nostra vita e farci guidare da Lui o rifiutarlo, sbattendo la porta e inveendo per i nostri malanni e le ingiustizie di questo mondo. Prima o poi questo bivio si presenterà, in forme e modi diversi, ma si presenterà. Sta a noi la scelta. Dio ci lascia liberi, ma al Suo messaggio non possiamo rimanere sordi: dobbiamo per forza o accettarlo o rifutarlo. Tertium non datur.

31 Dio, infatti, ha fissato un giorno nel quale giudicherà il mondo con giustizia. E lo farà per mezzo di un uomo, che egli ha stabilito e ha approvato davanti a tutti, facendolo risorgere dai morti.

Il mondo non durerà in eterno. Un giorno Dio giudicherà questo mondo attraverso Gesù e questo lascerà spazio a nuovi cieli e nuova terra, dove la giustizia abiterà in eterno. La vita è un dono di Dio, ma di questo dono dovremo renderGli conto. E non possiamo salvarci da soli, ma solo in Cristo e per Cristo. Infatti, “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio” (GV 316-18). Tra quanto tempo questo accadrà? Non ci è dato saperlo, non possiamo conoscere né il giorno né l’ora, ma la velocità con cui ci avviciniamo al giudizio universale è esponenziale. Il tempo procederà sempre più velocemente, finché saremo travolti dagli eventi. La Storia scorre sempre più veloce, come sappiamo, ma arriverà a un punto di rottura, in cui ci sarà il ritorno di Cristo e avrà inizio un’era nuova.   

 

32 Appena sentirono parlare di resurrezione dei morti, alcuni dei presenti cominciarono a deridere Paolo. Altri, invece, gli dissero: “Su questo punto ti sentiremo un’altra volta”.

La Resurrezione era, ed è, il punto più difficile da credere del Cristianesimo per i non cristiani e, talora, pure per molti che si professano cristiani. Dio ha immolato suo Figlio in riscatto dei nostri peccati. Il massimo gesto di amore di un Padre verso i suoi figli peccatori che, attraverso il sacrificio dell’unico Figlio privo di peccato, possono tornare a Lui. Un gesto d’amore immenso, raramente capito e spesso neppure apprezzato. Ma Gesù non è solo Croce, per quanto questo sia un aspetto fondamentale. È anche, e soprattutto, Resurrezione. La Resurrezione è il verdetto con cui Dio attesta che l’opera del Figlio è stata buona e giusta. Nella Resurrezione di Cristo, l’opera di Dio trova compimento. Con la Resurrezione Gesù ha vinto la morte e ha dato ai morti la vita.

33 Così Paolo uscì da quella riunione. 34 Ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell'Areopago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro.

C’è chi ha giudicato il discorso di Paolo all’Areopago un insuccesso. Certo, a Corinto le cose andranno meglio ma, al di là dell’attualità incredibile di questi passi, ad Atene Paolo piantò alcuni decisivi semi della sua attività missionaria. 

 

 

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