"E quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi” (Giov. 14:3)

 

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L’AMORE DI UN ATEO E L’AMORE DI UN CRISTIANO: CI SONO DIFFERENZE?

- di Angelo Galliani  - (genn 06) – 12-12-20

 

 

 

 

Ci sono differenze tra l'amore di un ateo e quello di un cristiano?

Di primo acchito, mi verrebbe da dire di sì. Però, se non motivata, questa potrebbe facilmente apparire una risposta categorica, discriminatoria, classista…

Per motivare il mio “sì”, dunque, vediamo prima che cosa dovrebbe intendersi per “cristiano”.

Conoscendo abbastanza bene il redattore del giornalino, il caro fratello Renzo, credo proprio che egli dia alla parola “cristiano” lo stesso significato che gli do io, e cioè il seguente:

“Una persona che, in seguito ad una profonda e personale esperienza di fede, vive in comunione con quel Dio rivelatosi in Gesù Cristo, tramite la viva presenza dello Spirito Santo”.

Dunque, per “cristiano”, qui non è da intendersi semplicemente colui il cui nominativo è segnato su qualche registro di chiesa, e che magari segue blandamente alcune abitudini religiose. Qui l’esser “cristiano” significa qualcosa di profondo, radicatosi nella coscienza. E’ un rapporto personale con Dio che cambia i pensieri, il comportamento, le scelte di vita…

“Cristiano”, più in particolare, è colui che è rimasto irreversibilmente impressionato da Gesù, dalle sue parole, dai suoi gesti di compassione, e soprattutto dal suo totale sacrificarsi per una umanità cieca ed egoista. Anzi, come ho già avuto modo di dire altrove, l’amore di Dio impersonificatosi in Cristo, è tanto più radioso quanto più lo si confronti con lo sfondo spaventosamente buio in cui si è rivelato. Non a caso Giovanni, in apertura al suo vangelo, di Gesù afferma:

“La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta” (1:5) e ancora: “La vera luce che illumina ogni uomo…” (1:9).

La vicenda di Gesù, in un certo senso, è la storia di un amore a senso unico, un amore non ricambiato (l’agàpe di Dio, come dicevano i Greci). In Cristo, noi vediamo un amore così totale e prorompente da lasciarci attoniti e confusi. Infatti, oggetto di quell’amore, non sono i “buoni”, i “santi”, i “giusti”… bensì i “peccatori” (tra i quali tutti noi, con le nostre croniche debolezze, le nostre meschinità, le nostre incoerenze…).

Anzi, rovesciando i termini, il pensiero apostolico comprenderà e spiegherà ai futuri nuovi discepoli che “buoni”, “santi” e “giusti” si diventa, lasciando a quell’amore di Dio il modo di penetrare nei nostri cuori, e di produrre i suoi meravigliosi frutti.

    

Dunque, il “cristiano” è uno che si è nutrito (e si nutre) in prima persona di un tal genere d’amore. E da quell’amore prende spunto nelle sue relazioni con gli altri. Il “cristiano”, insomma, non ama solo chi si rende amabile.

 

Ecco, mi sembra sia proprio questa la fondamentale differenza. E non se la prendano a male i “non-cristiani” che, eventualmente, dovessero leggere queste righe. In fondo, a parte altre problematiche di cui non mi sembra qui il caso di parlare, ad essi è risparmiata una pena che, senza la consolazione stessa di Dio, non sarebbe sopportabile. L’amare chi non ci ama ci “crocifigge”, ci “inchioda”, ci rende impossibile lottare usando le numerose armi dell’egoismo, della furbizia, dell’opportunismo... Chi ama “come Dio”, è disposto ad accettare anche la più amara solitudine.

 

 

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