Bollettino libero cristiano evangelico  della "Piccola Iniziativa Cristiana" a cui tutti possono partecipare utile per la riflessione e lo studio biblico

 

UN FIGLIO  CON HANDICAP NON SIGNIFICA UNA FAMIGLIA HANDICAPPATA

"Psicoflash" di Gabriella Ciampi - psicologa psicoterapeuta - 19-5-12 

 

L’avere un figlio disabile non è una scelta, è uno stato che si impone e si accetta, sentendosi impreparati e incapaci di fronte alla responsabilità e ai problemi, alle incognite degli eventi e del futuro. E’ una realtà destabilizzante sin dall’inizio e a cui non ci si può abituare; innesca un “dolore morale cronico”[1],

una demoralizzazione, o meglio una specie di “interruzione dell’evoluzione” familiare: mentre normalmente c’è la nascita, la scuola materna, l’adolescenza, l’età adulta, per finire con l’uscita di casa, spesso con un matrimonio, in questo caso c’è un blocco, uno stop, il percorso resta incompiuto. Il figlio con handicap resta fermo ad uno stadio senza avanzare  nel percorso, resta bambino pur aumentando l’età cronologica.

Gli studi psicosociali degli ultimi anni hanno spostato l’attenzione dal discorso dello stress legato alla presenza in famiglia di un bambino disabile, alle dinamiche che si attivano nella famiglia, alla capacità di fronteggiare questa situazione problematica con strategie e modalità personali (capacità di coping).

I due concetti fondamentali che ne escono sono: 1° - l’handicap di un figlio non deve essere visto come l’handicap della famiglia, e 2°) le famiglie interessate da questa condizione non sono tutte uguali e non bisogna quindi generalizzare.

UN EQUILIBRIO DIFFICILE.

C’è una fase di rabbia, una di rifiuto, una di accettazione e una di adattamento ma non è detto che sia per tutti così, che sia in questo ordine, e ciascuna famiglia può attraversare questi passaggi con proprie modalità e tempi, così ciascun genitore rispetto all’altro della coppia (madre-padre). Può passarci e ripassarci nel corso degli anni. E’ come se fosse un adattamento dinamico, sempre da rivedere e ridefinire, in equilibrio. In equilibrio “tra salute e malattia, tra l’uguaglianza e la devianza”[2],

dentro la società ma non condividendo, vicino agli altri bambini ma non alla pari. Socialmente al limite, in una terra di nessuno.

Certamente le difficoltà sono legate alla tipologia dell’handicap e all’entità, ciascuna con problemi specifici e specifici interventi di sostegno, assistenza e riabilitazione. Inoltre spesso sussiste il discorso della “gestione privata” dell’handicap, il mascheramento, la mimetizzazione della diversità per difendersi dagli atteggiamenti negativi della società che aggiunge problemi al problema. Ma è impossibile sottrarsi alla società che ci riporta puntualmente davanti gli standard ideali o della maggioranza, gli appuntamenti evolutivi, le richieste di conformismo, per non parlare dell’aspetto medico e assistenziale-riabilitativo che espone ogni volta il soggetto disabile alla valutazione (e con lui tutta la famiglia). Sono invalidi tutti i riferimenti esterni presenti e futuri, esiste soltanto un riferimento interno alla famiglia.

In questo contesto un genitore che non raggiunga uno stato di accettazione e adattamento, spesso riporta uno stato psicologico di ansia depressiva. Si alternano sentimenti di rifiuto della realtà, di iperprotezione, si diventa iperesigenti verso se stessi (dedizione totale al figlio) o aggressivi verso l’ambiente (per il senso di ingiustizia percepito).

 GUARDIAMO ALLE RISORSE  DELLA FAMIGLIA.

Guardiamo dentro e intorno alla famiglia: vengono considerate risorse quelle variabili immediatamente disponibili, le risorse materiali (socio-economiche, reddito, istruzione), e le risorse relazionali (coesione, comunicazione, adattabilità, coppia). Inoltre ci muoviamo anche su due aree:  il piano inter-individuale, legato ai tratti di personalità, e il piano intra-individuale, cioè i fattori sociali presenti nel contesto in cui ci si muove.

Se cerchiamo di tenere presente una delle tante definizioni di famiglia, forse riusciamo a vedere qualcosa che ci può aiutare:  può essere vista come un’ “organizzazione di persone in continuo cambiamento e crescita, impegnate reciprocamente a portare a termine diversi compiti di sviluppo nel corso del ciclo di vita”. Quindi ci sono relazioni interne e movimenti interni di crescita, sempre, in tutte le famiglie, e ci sono compiti di sviluppo da sostenere e svolgere, facilitando la crescita e il cambiamento, sempre. Anche con all’interno un figlio disabile, questa è la famiglia: persone in continuo cambiamento che si accompagnano nel percorso evolutivo della vita, tutte “reciprocamente impegnate” a contribuire e facilitare la crescita degli altri componenti, anche dove sembra tutto fermo o troppo lento o tanto diverso. Un figlio disabile contribuisce come gli altri, usa completamente il suo stile, una modalità personale, dentro ai limiti della sua disabilità: ogni giorno un genitore sa quanto e come il figlio lo stimola, lo invita, lo fa crescere, attraverso gli sguardi, le espressioni, gli sforzi di comunicare, i gesti affettuosi anche se goffi.

Proviamo infine anche a vedere che tipo di famiglia posso costituire: la mia famiglia è impermeabile all’esterno, ha dei confini rigidi? Oppure non ha confini e tutto si svolge all’esterno, le richieste e la vita, i compiti e le esigenze si soddisfano soltanto appoggiandosi all’esterno? O ancora, si tratta di una famiglia che ha dei confini semi-aperti, riesce cioè ad avere una propria autonomia ma anche a creare scambi utili con il contesto sociale? E’ importante capire questo aspetto perché mi rendo conto di dove attingo la forza e le risorse per andare avanti. Una famiglia completamente appoggiata all’esterno, perde la sua identità, definitezza, e questo non dà sicurezza e contenimento alle ansie (non avendo confini), non costruisce un’ “identità familiare”. Ma l’esterno, la società, serve, c’è bisogno di attingere ai servizi, all’assistenza, alla socialità, all’affetto degli amici, al sostegno delle strutture varie, al calore della comunità, per recuperare, salvaguardare e soddisfare il bisogno di appartenenza che tutti abbiamo (oltre che i problemi pratici).

Allora posso chiedere sostegno all’esterno, quello che mi serve per poter curare dentro la mia famiglia e per poter ascoltare anche quello che è necessario a ciascun componente. La presenza di un figlio con handicap non deve svalutare i bisogni degli altri, dei genitori e dei fratelli, bisogni che se trascurati tolgono energia e capacità, vitalità e disponibilità. Proviamo a vedere se con una buona organizzazione, facendo appello alle risorse esterne (parenti, strutture, ecc), è possibile recuperare un piccolo spazio individuale per ciascuno della famiglia, un piccolo spazio per la coppia coniugale che non può annullarsi nell’unico ruolo genitoriale,  un piccolo spazio per gli altri figli che attendono pazienti.


 

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"Per chiarimenti sul contenuto, approfondimenti o domande, potete scrivere all'indirizzo mispic2@libero.it  specificando nell'oggetto "Domande alla psicologa". La d.ssa Ciampi sarà lieta di rispondere"-

 

 

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[1] La famiglia di fronte all’handicap di Enzo Magazzini

[2] Handicap e famiglia di Gianni Selleri

 

 

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